http://www.avvocato-penalista-cirolla.blogspot.com/google4dd38cced8fb75ed.html Avvocato penalista ...: gennaio 2014

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venerdì 31 gennaio 2014

Avvocato penalista - La Sospensione condizionale della pena e l'obbligo di restituzioni in mancanza della parte civile.

Avvocato penalista - La Sospensione condizionale della pena e l'obbligo di restituzioni in mancanza della parte civile.
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Avvocato penalista - La Sospensione condizionale della pena e l'obbligo di restituzioni in mancanza della parte civile.
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"" Sospensione condizionale della pena e obbligo di restituzioni in mancanza della parte civile
Scritto da Redazione Giurisprudenza Penale   il 31 gennaio 2014
 
Cassazione Penale, Sez. II, 29 gennaio 2014 (ud.18 dicembre 2013), n. 3958
Presidente De Crescenzio, Relatore Rago
 
Depositata il 29 gennaio la sentenza numero 3958 della seconda sezione penale in tema di sospensione condizionale della pena.

E’ stato affermato il principio secondo cui giudice, in mancanza della costituzione di parte civile, non può subordinare la sospensione condizionale della pena alle restituzioni, perché queste, come il risarcimento, riguardano il solo danno civile e non anche il danno criminale.
 
Premessa la distinzione tra le nozioni di danno criminale (che ha natura pubblicistica ed è identificabile nelle conseguenze che ineriscono alla lesione o alla messa in pericolo del bene tutelato) e di danno civilistico (che ha natura privatistica e coincide con il danno che il reato arreca alle singole persone offese e del quale può essere chiesto il risarcimento), le locuzioni “obbligo di restituzioni” e “risarcimento del danno” di cui all’art. 165 c.p. – concludono i giudici – si riferiscono, infatti, al solo danno civilistico sicché, indipendentemente dalla natura giuridica del reato commesso, la sospensione condizionale della pena può essere subordinata all’adempimento dei suddetti obblighi solo ed esclusivamente nelle ipotesi in cui vi sia stata la costituzione di parte civile e questa abbia espressamente richiesto la condanna dell’imputato al risarcimento del danno o alle restituzioni.
 
Nella fattispecie la Corte, con riferimento ad una condanna per appropriazione indebita di denaro e documentazione contabile e amministrativa, ha annullato la sentenza impugnata anche nella parte in cui aveva subordinato la concessione del beneficio alla restituzione dei documenti e delle somme di cui all’imputazione. ""
 
Fonte giurisprudenza penale.com, qui:
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Avvocato penalista - La Sospensione condizionale della pena e l'obbligo di restituzioni in mancanza della parte civile.
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giovedì 30 gennaio 2014

Avvocato penalista - La Diffamazione a mezzo stampa e la critica politica: un rapporto molto difficile.

Avvocato penalista - La Diffamazione a mezzo stampa e la critica politica: un rapporto molto difficile.
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Avvocato penalista - La Diffamazione a mezzo stampa e la critica politica: un rapporto molto difficile.
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"" Diffamazione a mezzo stampa e critica politica: breve analisi di un difficile rapporto
Scritto da Serena De Filippis   il 30 gennaio 2014
Cassazione Penale, Sez. II, 19 dicembre 2013 (ud. 10 dicembre 2013), n. 51439
Presidente Esposito, Relatore Gallo, P. M. D’Angelo, Ricorrente D.P.A.
 
La massima
 
In tema di diffamazione a mezzo stampa, ai fini dell’applicazione dell’esimente di cui all’art. 51 c.p., la critica politica, nell’ambito della polemica fra contrapposti schieramenti può anche tradursi in valutazioni e commenti tipicamente “di parte”, cioè non obiettivi. Tuttavia, la critica deve pur sempre fondarsi sull’attribuzione di fatti veri, posto che nessuna interpretazione soggettiva, che sia fonte di discredito per la persona che ne sia investita, può ritenersi rapportabile al lecito esercizio del diritto di critica, quando tragga le sue premesse da una prospettazione dei fatti opposta alla verità.
 
Il commento
 
La sentenza che si annota trae origine, dal punto di vista fattuale, dall’uscita dal partito politico “Italia dei Valori” (IDV) di Nicola Tranfaglia, risalente al marzo del 2011, a causa delle divergenze esistenti tra quest’ultimo ed il leader del partito stesso. A seguito di tale avvenimento, si legge in sentenza, il Tranfaglia pubblicava sulla sua pagina Facebook un articolo dal titolo “Perché lascio l’IDV” e rilasciava delle interviste, riprese dalle agenzie di stampa e dai principali quotidiani, in cui scagliava delle accuse contro il leader dell’IDV e la sua gestione del partito (in particolare, affermava che si trattava di “partito personale guidato con mano di ferro da Antonio Di Pietro“).
 
Respingendo il ricorso, presentato dalla parte civile A.D.P., la Corte di cassazione è tornata ad esprimersi sull’intramontabile dibattito relativo al bilanciamento tra due diritti che spesso si scontrano nelle aule di giustizia: il diritto di critica politica ed il diritto di ogni individuo a preservare il proprio onore e la propria reputazione.
 
Dato il consolidato principio secondo cui non v’è dubbio che, in tema di diffamazione a mezzo stampa, ai fini dell’applicazione dell’esimente di cui all’art.51 c.p., la critica politica deve sempre fondarsi sull’attribuzione di fatti veri, posto che nessuna interpretazione soggettiva, che sia fonte di discredito per la persona che sia investita, può ritenersi rapportabile al lecito esercizio del diritto di critica quando tragga le sue premesse da una prospettazione dei fatti opposta alla verità (in tal senso, si veda Cass. Pen. sez. V, 03 dicembre 2009, n. 7419), nel caso in esame gli ermellini hanno ritenuto che i fatti attribuiti al ricorrente dal Tranfaglia non fossero fatti disonorevoli non veri. Egli, piuttosto, aveva fornito una sua interpretazione polemica della gestione del partito, sostanzialmente definendo l’IDV “un partito personale guidato con mano di ferro da D.P.”, espressioni che costituiscono libero ed incensurabile esercizio del diritto di critica politica, garantito dall’art. 21 della Costituzione.
 
La sentenza in esame è lo spunto per lo svolgimento di un’analisi più ampia ed approfondita sulla questione relativa all’individuazione di parametri per valutare in quali casi sussista il reato di diffamazione ed in quali, invece, operi l’esimente del diritto di critica; questione che, a monte, mette a confronto due diritti costituzionalmente tutelati: il diritto di critica, da un lato, ed il diritto all’onore e alla reputazione, dall’altro.
 
A ben vedere, né lo ius narrandi, né i “diritti della personalità” sono esplicitamente richiamati dalla Costituzione. Entrambi, tuttavia, sono ormai quasi unanimemente considerati come valori implicitamente riconosciuti dalla nostra Carta fondamentale.
 
Invero, attraverso un’interpretazione evolutiva dell’art. 21 della Costituzione, che tutela la libera manifestazione del pensiero, principio cardine di ogni ordinamento democratico il quale trova espressione anche in numerose Convenzioni internazionali (si veda, ad esempio, l’art. 10 CEDU), dottrina e giurisprudenza hanno ritenuto coperto da garanzia il diritto di critica. Tuttavia, tale diritto, seppur costituzionalmente garantito, trova dei limiti desumibili dalla stessa Carta Costituzionale. Il riferimento non può che essere ai beni quali l’onore e la reputazione, che hanno, infatti, anch’essi  rilevanza costituzionale sebbene non vi sia unanimità di vedute circa il loro fondamento; se esso, cioè, vada rivenuto nell’art. 2 cost., mediante il riferimento ai diritti inviolabili della persona, o piuttosto nell’art. 3 cost., che enuncia la pari dignità sociale tra gli individui.
 
Ad ogni modo, l’affermazione dell’esistenza del valore costituzionale dei due beni giuridici non risolve il problema, ma anzi rende ancor meno agevole la risoluzione dei casi in cui la critica è passibile di arrecare un pregiudizio all’onore e alla reputazione altrui: pertanto, ogniqualvolta il principio sancito dall’art. 21 cost. pone in pericolo la dignità di un individuo si crea un conflitto fra due diritti parimenti garantiti in Costituzione. È evidente come non sia possibile risolvere la questione in termini di gerarchia, ma sia opportuno individuare dei parametri che consentano di esprimere un giudizio di bilanciamento che non comporti il sacrificio integrale di uno dei due diritti in questione (Vigevani, Il diritto di cronaca e di critica in Percorsi di diritto dell’informazione, Giappichelli, Torino, 2006, 59 ss.).
 
Ebbene, a tutela dell’onore e della dignità dell’individuo, il legislatore ha previsto i reati di ingiuria e diffamazione (artt. 594 e ss. cod. pen.).
 
In particolare, l’art. 595 c.p. definisce la diffamazione quale l’offesa all’altrui reputazione commessa comunicando con più persone e prevede un apparato sanzionatorio piuttosto rigoroso, specialmente qualora l’offesa consista nell’attribuzione di un fatto determinato o sia arrecata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità (per una trattazione esaustiva e completa del reato in esame, il riferimento è a Polvani, La diffamazione a mezzo stampa, CEDAM, Padova, 1995). Il bene giuridico tutelato da codesto reato è, evidentemente, la reputazione intesa quale opinione e stima di cui gode un soggetto in un determinato ambiente per qualità fisiche, personali, intellettive, professionali o altro, e non come considerazione che ciascuno ha di sé o con il semplice amor proprio (da ultimo, Cass. Pen, sez. V, 29 ottobre 2008, n. 40359).
 
Trattasi di reato comune, potendo essere commesso da chiunque. Tre sono gli elementi caratterizzanti il comportamento del soggetto attivo, che devono sussistere affinché il fatto risulti penalmente rilevante: l’assenza dell’offeso, la comunicazione con più persone, l’offesa all’altrui reputazione.
 
Il legislatore richiede, dunque, che l’affermazione offensiva venga pronunciata in assenza dell’offeso (in caso contrario si ricadrebbe nel reato di ingiuria, di cui all’art. 594 c.p.). Ciò che rileva è l’impossibilità di ascoltare e, di conseguenza, di reagire e difendersi, da parte del soggetto passivo la cui reputazione risulta compromessa. Inoltre, è assimilato a “chi non è presente” anche chi si trova nel medesimo luogo ma non è in grado di recepire l’offesa o per la distanza, o perché occupato in altra conversazione o per eccesso di confusione o rumore: il concetto di presenza va interpretato, dunque, come possibilità di udire quanto viene detto. Tuttavia, ai fini dell’integrazione della fattispecie di reato, non è sufficiente che la comunicazione sia rivolta ad un solo interlocutore ma questa deve essere ascoltata da una pluralità di persone. È necessario che vi sia una presa di contatto con soggetti diversi al fine di renderli partecipi dei fatti lesivi della reputazione di altra persona. La divulgazione dell’affermazione offensiva, quindi, può ritenersi realizzata anche quando ci si rivolga soltanto a due ascoltatori. Inoltre, non si richiede che la propalazione delle frasi offensive venga posta in essere simultaneamente, potendo la stessa aver luogo anche in momenti diversi, purché risulti comunque rivolta a più soggetti (ex multis, Cass. Pen. sez. V, 25 febbraio 2011, n. 7408); ed ancora, la giurisprudenza ritiene soddisfatto il requisito della diffusione della notizia offensiva anche quando l’agente comunichi l’offesa ad una persona perché questa, a sua volta, la comunichi ad altri (Cass. Pen. sez. V, 18 maggio 1988, n. 1463).
 
I fatti, oggetto della comunicazione, possono essere anche generici; tuttavia, il legislatore attribuisce un maggior disvalore penale alla diffusione di un fatto specifico: in tali casi, il 2° comma dell’art. 595 c.p. prevede un aggravamento della pena. Per “fatto determinato” la Corte ha chiarito che deve intendersi tale quello individuabile concretamente mediante l’indicazione dell’azione o delle azioni che si vogliono commesse da taluno e non già la vaga espressione di contumelie generiche o la generica attribuzione di qualità o di attività disonoranti; deve, in altri termini, trattarsi di un fatto sufficientemente delineato nel suo carattere e nei suoi contorni, così che ne derivi quell’aspetto di più agevole credibilità, produttivo di maggior pregiudizio alla reputazione, in che si concreta la ratio dell’aggravante in questione (Cass. Pen. sez. VI, 9 maggio 1985, n. 730).
 
Il mezzo di comunicazione con cui si pone in essere la divulgazione è indifferente: il reato è, dunque, a forma libera.
 
Infine, per ciò che concerne la sussistenza dell’elemento psicologico, nei delitti di diffamazione non è necessaria l’intenzione di offendere la reputazione della persona (animus diffamandi) ma basta il dolo generico, cioè la volontà di usare espressioni offensive con la consapevolezza di offendere l’altrui reputazione (ex plurimis, si veda Cass. Pen., sez. V, 6 giugno 1988, n. 6671).
 
Per poter individuare correttamente i confini del reato di diffamazione, occorre definire l’esimente in presenza della quale il reato non è configurabile: trattasi, tra gli altri, del diritto di critica inquadrabile nell’ambito di quanto disposto all’art. 51 c.p. (“esercizio di un diritto o adempimento di un dovere”).
 
La scriminante dell’esercizio del diritto è, senza dubbio, l’istituto che riveste una maggiore considerazione relativamente ai delitti contro l’onore. A tale esimente sono, infatti, attribuiti i diritti di cronaca, di critica e di satira che, com’è facilmente intuibile,  assumono particolare rilievo nei casi di diffamazione a mezzo stampa. Nell’alveo dell’esercizio del diritto vengono, quindi, ricompresi tutti quei comportamenti che, benché astrattamente sussumibili nel reato di diffamazione, sono, per giurisprudenza e dottrina pressoché unanime, considerati penalmente irrilevanti.
 
In particolare, il diritto di critica si basa su di un’attività prevalentemente valutativa, consistendo in un dissenso o in un consenso, solitamente ponderato relativamente alle opinioni o alle condotte altrui, e – dal punto di vista, per così dire, intrinseco – si concreta in un esame di eventi, condotte, fenomeni, con il fine di apprezzarne il significato recondito e le conseguenze che siano a questi causalmente attribuibili.
 
È evidente che nel concetto di critica non può essere ricompresa la caratteristica dell’oggettività poiché essa è pur sempre un’interpretazione soggettiva, id est un’esternazione di una visione individuale degli avvenimenti. Appare, dunque, risultato di una lettura piuttosto cauta giungere a richiedere che l’attività di critica sia misurata, calcolata, oggettiva, se non financo costruttiva. Allo stesso modo, non pare potersi sostenere che la critica, per essere legittima, necessiti di un’adeguata giustificazione delle affermazioni in essa contenute, dato che l’opinione – alla stregua di qualsiasi altra manifestazione del pensiero – non è tenuta, né sul piano logico né su quello del diritto, ad obbedire ad alcun obbligo di coerenza intrinseca o formale. Da ciò ne deriva che all’esercizio della critica, è connaturata un’innata, sebbene solo eventuale, valenza aggressiva nei confronti del destinatario o di una sua attività, così che ne risulta, in modo diretto o indiretto, potenzialmente sminuito il bene della reputazione. Essa trova il suo fondamento legittimante, come già specificato, nell’art. 21 della Costituzione ma anche in altre norme costituzionali che, implicitamente, la richiamano o la presuppongono, quali l’art. 18 e 49 Cost..
 
La critica rappresenta, invero, la classica manifestazione, la più vera, della libertà di espressione delle idee, poiché si estrinseca in una manifestazione originale di queste ed è rappresentata da un giudizio di valore, entrambi modi di essere indispensabili per una efficace circolazione del pensiero degli uomini. Ovviamente il suo esercizio incontra dei limiti, i quali sono stati fissati nella famosa “sentenza-decalogo” del 1984 della Suprema Corte (id est Cass. Civ., sez. I, 18 ottobre 1984, n. 5259). In questa pronuncia, i giudici di piazza Cavour individuano i requisiti di legittimità dell’esercizio del diritto di cronaca (valevoli anche per quello di critica) nella verità dei fatti, nella continenza della forma espositiva e nel perseguimento dell’interesse pubblico.
 
Relativamente al primo limite, la Cassazione ha precisato che, in tema di diffamazione a mezzo stampa, nello specifico, l’esercizio del diritto di critica, pur assumendo necessariamente connotazioni soggettive ed opinabili, richiede che comunque le critiche trovino riscontro in una corretta e veritiera riproduzione della realtà fattuale e che, pertanto, esse non si concretino in una ricostruzione volontariamente distorta della realtà, preordinata esclusivamente ad attirare l’attenzione negativa dei lettori sulla persona criticata (in merito, Cass. Pen., sez. V, 17 marzo 2006, n. 9373).
 
La continenza della forma espositiva esige che l’offesa arrecata non si traduca in una gratuita ed immotivata aggressione alla sfera personale del soggetto passiva ma sia “contenuta” nell’ambito della tematica attinente al fatto dal quale la critica ha tratto spunto, fermo restando che entro tali limiti, la critica, siccome espressione di valutazioni puramente soggettive dell’agente, può anche essere pretestuosa ed ingiustificata, oltre che caratterizzata da forte asprezza (così Cass. Pen., sez. V, 27 gennaio 2011, n. 3047). Pertanto, il limite della continenza deve ritenersi superato quando le espressioni adottate risultino pretestuosamente denigratorie e sovrabbondanti rispetto al fine della cronaca del fatto e della sua critica.
 
Infine, è necessario che il fatto narrato sia pertinente al potenziale interesse dell’opinione pubblica, ovvero quando abbia finalità di interesse sociale (sul tema si veda Verde, Diffamazione a mezzo stampa e l’esimente dell’esercizio del diritto, Cacucci Editore, Bari, 2009).
 
Considerata la sentenza da cui ha preso le mosse questa analisi, un ulteriore cenno va rivolto all’ambito specifico della critica politica. La dialettica propria della contesa politica – intesa in senso ampio, in modo da ricomprendere anche quella sindacale – trova specifica applicazione in materia di esercizio del diritto di critica, in considerazione del prevalente rilievo che viene comunemente attribuito all’interesse pubblico ad assicurare l’effettività del dialogo politico tra tutti i consociati, al fine di garantire la compiuta trasparenza dei processi di formazione delle decisioni, adottate nella gestione della “cosa pubblica”.
 
Sulla base di tale assunto, si è ritenuto da un lato che la tutela di chi partecipa alla vita politica sia meno intensa di quella degli altri cittadini, vale a dire che i confini della diffamazione lecita devono essere misurati in proporzione all’ambito di responsabilità politica del destinatario dell’offesa, per l’interesse pubblico al controllo sull’operato dei rappresentanti della collettività, dall’altro che sia concessa non solo la possibilità di criticare e disapprovare, anche con espressioni di asprezza e con toni incisivi, ma anche quella di denigrare e dequalificare le azioni degli avversari. Unico limite è quello dato dalla necessità di affermare e diffondere le idee e gli interessi della propria parte politica o sociale; sono in ogni caso illegittime quelle espressioni e mendaci attribuzioni denigratorie, nonché quei giudizi, pur apparentemente scherzosi o ironici, ma in realtà derisori o offensivi. Ne consegue che, comunque, l’area della reputazione oggettivamente tutelabile risulta, in tali casi, maggiormente ristretta anche se, lo si ripete, non è possibile sostenere che gli scopi della critica politica, sebbene finalizzata al controllo sull’attività di chi gestisce la “cosa pubblica”, possano giungere a rendere lecita l’affermazione di concrete ma indimostrate circostanze lesive per la reputazione altrui.
 
Per tali ragioni, il diritto di critica politica incontra dei limiti consistenti, in primo luogo, nella possibilità di essere esercitato solo entro e non oltre i confini della necessità della diffusione delle idee politiche professate, e dunque evitando superflue ed inutili aggressioni all’altrui sfera morale; ancora, nell’obbligo di rispettare la verità oggettiva delle affermazioni che riportano fatti determinati. Infine, un ulteriore limite è dato dall’interesse pubblico alla conoscenza dell’opinione critica stessa. Non sono, infatti, ammesse quelle manifestazioni del pensiero che trascendano la sfera pubblica, invadendo la dimensione privata o che si sostanzino in attacchi che colpiscano l’individuo non in quanto uomo politico ma in quanto persona: codesti profili sono da considerare estranei ed al di fuori dell’interesse della pubblica opinione.
 
A conclusione di questa breve disamina, un monito va rivolto all’interprete: nel campo della critica in genere, ed in quella politica nello specifico, resta una necessità fondamentale quella di garantire il rispetto di un minimo etico di condotta, affinché sia possibile mantenere la dialettica entro ragionevoli ambiti di rispetto e vivere civile, al fine di evitare che – con irrecuperabile danno per le istituzioni e per i consociati stessi – il contraddittorio tra le idee degeneri “a livello di contumelia e gioco al massacro” (sulla questione, il riferimento è a Bertoni, Diffamazione a partito politico, diritto di querela e libertà di critica in Cass. Pen., 1986, 1285 ss.). ""
 
Fonte giurisprudenza penale.com, qui:
 
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mercoledì 29 gennaio 2014

Avvocato penalista - Le attenuanti generiche e la recidiva nella commissione dei reati.

Avvocato penalista - Le attenuanti generiche e la recidiva nella commissione dei reati.
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Avvocato penalista - Le attenuanti generiche e la recidiva nella commissione dei reati.
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"" La cassazione si pronuncia sulle attenuanti e la recidiva.
 
La Cassazione, con la sentenza che si riporta, ha esaminato il caso di uomo condannato in primo grado per il reato di detenzione a fine di spaccio di sostanza stupefacente del tipo marijuana, alla pena di anni cinque di reclusione ed € 20.000,00 di multa riconoscendogli la recidiva specifica infraquinquennale.
 
La Corte d'appello disattese le censure proposte in punto di affermazione della responsabilità penale, recidiva e diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche, riduceva tuttavia la pena inflitta, «in relazione all'entità della condotta», rideterminandola in anni 4, mesi 2 e giorni 20 di reclusione e € 18.000 di multa.
 
Avverso tale decisione l'imputato proponeva ricorso in cassazione.
 
Secondo Piazza Cavour "la concessione o meno delle attenuanti generiche è un giudizio di fatto lasciato alla discrezionalità del giudice, sottratto al controllo di legittimità, tanto che «ai fini della concessione o del diniego delle circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall'art. 133 c.p., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all'entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente in tal senso» (Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, Sermone, Rv. 249163).
 
In relazione alle esposte coordinate di riferimento è da escludersi che, nel caso in esame, il diniego delle attenuanti generiche sia frutto di arbitrio o di illogico ragionamento o che comunque si esponga a censura di vizio di motivazione, avendo il giudice a quo sia pure sinteticamente ma specificamente motivato sul punto facendo in particolare riferimento al precedente penale specifico." ""
 
Fonte Sentenze-cassazione.com :
 
 
Per leggere il testo della sentenza, cliccate qui:
 
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martedì 28 gennaio 2014

Avvocato penalista - La minaccia da parte del pubblico ufficiale di adottare atti legittimi è Induzione indebita a dare o promettere utilità (Art. 319 quater del Codice Penale) e non Concussione (Art. 317 del Codice Penale), secondo una recente sentenza della nostra Corte di Cassazione.

Avvocato penalista - La minaccia da parte del pubblico ufficiale di adottare atti legittimi è Induzione indebita a dare o promettere utilità (Art. 319 quater del Codice Penale) e non Concussione (Art. 317 del Codice Penale), secondo una recente sentenza della nostra Corte di Cassazione.  
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Avvocato penalista - La minaccia da parte del pubblico ufficiale di adottare atti legittimi è Induzione indebita a dare o promettere utilità (Art. 319 quater del Codice Penale) e non Concussione (Art. 317 del Codice Penale), secondo una recente sentenza della nostra Corte di Cassazione.
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"" Concussione: sulla minaccia da parte del pubblico ufficiale di adottare atti legittimi
Scritto da Luca Bellini il 30 gennaio 2014
 
Cassazione Penale, Sez. VI, 28 gennaio 2014 (ud. 14 novembre 2013), n. 3722
Presidente Milo, Relatore Di Stefano
 
E’ stata depositata il 28 gennaio 2014 la pronuncia numero 3722 in tema di reati contro la pubblica amministrazione.
 
Questi i fatti così come riportati in sentenza: due funzionari della Agenzia delle Entrate effettuavano un controllo a carico di un bar sito in Milano e, rilevate anomalie di gestione sotto il profilo tributario e previdenziale – prospettando al titolare gravi conseguenze in caso di formalizzazione degli accertamenti – lo inducevano ad accettare un pagamento in loro favore perché non procedessero a denunciare le dette irregolarità.
 
Al fine della conclusione di tale accordo illecito, -condotta che le ulteriori indagini dimostravano essere frequente per i due funzionari – questi ultimi chiedevano che il proprietario facesse agire quale intermediario il suo commercialista. Intervenuto costui su iniziativa della vittima, vi era quindi un incontro ove i due imputati e il commercialista si accordavano per il pagamento di una cifra che veniva indicata in Euro 1.000,00, e che i funzionari avrebbero ritirato presso lo studio del commercialista.
 
 Il titolare del bar denunciava i fatti alla GdF, sospettando anche del proprio commercialista, per cui concordava con gli operanti una consegna “controllata” del denaro.

Consegnava 1.000,00 Euro al commercialista, con banconote “segnate”; i due funzionari si recavano nello studio del commercialista e all’uscita, sottoposti a controllo, risultavano avere Euro 800,00 proveniente dalla somma anzidetta.
 
In sede di perquisizione nello studio, nella cassaforte veniva rinvenuta la restante somma di Euro 200,00.
 
Il commercialista veniva così condannato, sia in primo grado sia in appello, per concorso in concussione ex art. 110 e 317 c.p.
 
La Suprema Corte ha ritenuto il ricorso dell’imputato fondato solo con riferimento alla qualificazione del fatto accogliendo le deduzioni difensive secondo cui il fatto, alla luce delle modifiche intervenute con la legge n. 190 del 2012, integrerebbe il reato di cui all’art. 319 quater c.p. e non quello di cui all’art. 317 c.p.
 
La Corte ha affermato che il fatto rientra nella nuova ipotesi di reato di cui all’art. 319 quater c.p., in continuità normativa rispetto alla concussione nella forma previgente (la successione normativa fra il previgente testo dell’art. 317 c.p., quello introdotto dalla L. n. 190 del 2012, art. 1, comma 75, e quello del nuovo ed autonomo art. 319 quater c.p., si colloca all’interno del peculiare fenomeno della successione di leggi penali, disciplinato dall’art. 2 c.p., comma 4, Sez. 6, Sentenza n. 21701 del 07/05/2013).
 
Infatti – concludono i giudici – i pubblici ufficiali avevano prospettato alla vittima un danno in sè lecito in quanto sarebbe conseguito ad un loro doveroso accertamento di irregolarità fiscali effettivamente sussistenti, prospettando quindi un male “giusto“, ipotesi rientrante nella nuova figura normativa.
 
Tra i precedenti conformi si rinvia a Cass. Pen., Sez. VI, 25/02/2013, n. 13047 secondo cui “A seguito dell’entrata in vigore della l. n. 190 del 2012, la minaccia, di qualsivoglia tipo o entità, di un danno ingiusto, finalizzata a farsi dare o promettere denaro o altra utilità, posta in essere con abuso della qualità o dei poteri, integra il delitto di concussione se proveniente da pubblico ufficiale ovvero di estorsione se proveniente da incaricato di pubblico servizio; sussiste, invece, il delitto di induzione indebita, di cui all’art. 319 quater cod. pen., qualora il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, abusando della qualità o dei poteri, per farsi dare o promettere il denaro o l’utilità prospetti, con comportamenti di persuasione o di convinzione, la possibilità di adottare atti legittimi, ma dannosi o sfavorevoli. (Nella specie, la Corte ha qualificato come induzione indebita, ex art. 319 quater cod. pen., la condotta di un sottufficiale della guardia di finanza che, nell’esercizio di attività di verifica, aveva prospettato al titolare di un’azienda il rilievo di gravi irregolarità fiscali, effettivamente sussistenti, e si era, quindi, fatto promettere una consistente somma di danaro“). ""
 
Fonte giurisprudenzapenale.com , qui:
 
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Avvocato penalista - La minaccia da parte del pubblico ufficiale di adottare atti legittimi è Induzione indebita a dare o promettere utilità (Art. 319 quater del Codice Penale) e non Concussione (Art. 317 del Codice Penale), secondo una recente sentenza della nostra Corte di Cassazione.
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lunedì 27 gennaio 2014

Avvocato penalista - La divulgazione delle generalità o dell’immagine di persona offesa da atti di violenza sessuale ovvero la previsione normativa di cui all'Art. 734 bis del Codice Penale.

Avvocato penalista - La divulgazione delle generalità o dell’immagine di persona offesa da atti di violenza sessuale ovvero la previsione normativa di cui all'Art. 734 bis del Codice Penale.
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Avvocato penalista - La divulgazione delle generalità o dell’immagine di persona offesa da atti di violenza sessuale ovvero la previsione normativa di cui all'Art. 734 bis del Codice Penale.
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"" Sulla divulgazione dell’immagine di persona offesa da reati sessuali – Cass. Pen. 2887/2014
Scritto da Redazione Giurisprudenza Penale   il 27 gennaio 2014
 
Cassazione Penale, Sez. III, 22 gennaio 2014 (ud. 12 dicembre 2013), n. 2887
Presidente Teresi, Relatore Pezzella
 
Depositata il 22 gennaio 2014 la pronuncia numero 2887 della terza sezione relativa all’illecito contravvenzionale di cui all’art. 734-bis c.p. (divulgazione delle generalità o dell’immagine di persona offesa da atti di violenza sessuale).
 
Questi i fatti così come riportati dai giudici nelle motivazioni: il Tg5, nell’edizione serale di maggiore ascolto (quella delle 20), aveva trasmesso alcune immagini, riprese nel corso dell’incidente probatorio avente ad oggetto l’audizione protetta dei minori sopra indicati, nell’ambito del caso giudiziario che ebbe a riguardare la scuola materna di Rignano Flaminio.
 
Nello specifico le immagini ritraevano i colloqui tenutisi il 12 luglio di quell’anno tra taluni dei minori presunti abusati e una psicologa dell’Istituto di neuropsichiatria infantile, incaricata, con altri specialisti, di accertare le condizioni psichiche dei minori coinvolti al fine di verificarne la loro capacità testimoniale.
 
I due imputati venivano perciò chiamati a rispondere rispettivamente come direttore del telegiornale e autrice del servizio.
 
La Corte d’Appello di Milano, in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Monza, revocava le statuizioni civili, condannava gli imputati alla rifusione delle spese della proseguita difesa delle altre parti civili, e confermava la sentenza di condanna dei due imputati all’ammenda di Euro 3420 oltre al risarcimento del danno.
 
La Suprema Corte ha respinto i ricorsi dei due imputati soffermandosi, in particolare, sul concetto di “non riconoscibilità” delle immagini divulgate.
 
Con l’art. 734 bis c.p. – afferma la Corte – il legislatore ha introdotto nell’ordinamento una norma destinata alla protezione della riservatezza delle persone offese da atti di violenza sessuale e tale protezione non contempla alcuna eccezione, se non il consenso della medesima persona offesa; la condotta, pacificamente, almeno sul piano della astratta applicazione della norma, può essere indifferentemente consumata a titolo di dolo o di colpa, rientrando nel novero delle contravvenzioni.
 
In assenza di consenso della persona offesa, pertanto, l’illiceità della condotta s’incentra sull’attività di “divulgazione“, consistente nel portare a conoscenza di un numero indeterminato di persone notizie riservate (nel caso che ci occupa le generalità o l’immagine di “qualsiasi” persona offesa di quegli specifici reati), con ogni modalità, prevedendosi espressamente che ciò possa avvenire “anche attraverso mezzi di comunicazione di massa”, tra cui rientrano, evidentemente, non soltanto i mass media tradizionali (stampa, televisione, radio), ma anche quelli diffusisi con le nuove tecnologie (siti web, blog, social network, mailing list); si tratta di un reato contravvenzionale, quindi procedibile d’ufficio, e pertanto nessuna conseguenza in ordine alle statuizione penali può avere l’intervenuta remissione di querela e la successiva revoca della costituzione di parte civile da parte dei genitori in proprio e nell’interesse dei minori.
 
Integra, pertanto, la fattispecie contravvenzionale di cui all’art. 734-bis c.p., avente natura di reato di pericolo,  un filmato – come quello oggetto del presente giudizio - che mostra riprese fatte con telecamere installate in un locale di pochi metri quadrati, in cui gli individui che si muovono in uno spazio ristretto sono ripresi non solo di schiena, ma, seppure per pochi attimi, anche di profilo, in modo tale da essere identificabili.
 
La condotta di divulgazione dei dati o dell’immagine è, dunque, vietata in quanto suscettibile di costituire fonte di pericolo per la parte offesa di essere riconosciuta in quanto tale, rispetto a reati che, nel comune sentire collettivo, sono infamanti anche per chi li subisce.
 
La sussistenza di tale ulteriore danno nel caso concreto, pertanto, non deve essere accertata e ciò che il Giudice è tenuto ad accertare è solo il verificarsi di quel comportamento che il legislatore ha ritenuto normalmente pericoloso per il bene tutelato dalla norma.
 
Deve considerarsi, inoltre, che il sacrificio della privacy delle vittime – concludono i giudici – è stato operato non sull’altare dell’interesse generale bensì su quello della tempestività del servizio giornalistico, al fine di dare la notizia per primi, quindi esclusivamente per il successo della testata.
 
Nel caso di specie l’interesse non era quello di riferire un fatto – che ci fosse un procedimento penale in corso per dei supposti atti di violenza sessuale avvenuti nella scuola era circostanza ormai nota – ma proprio quello di mostrare le immagini di un atto giudiziario e, al suo interno, quelle del perito e delle piccole vittime.
 
Questa, in conclusione, la massima ricavabile dalla pronuncia in questione: posto che con il reato previsto dall’art. 734-bis cod. pen. il legislatore ha affermato un vero e proprio diritto all’anonimato per le vittime di atti di violenza sessuale, deve escludersi che la condotta di chi divulghi, senza il consenso dell’interessato, le generalità o le immagini di persone offese da uno dei delitti indicati dalla norma possa essere scriminata dall’esercizio del diritto di cronaca. ""
 
Fonte giurisprudenzapenale.com , qui:
 
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Avvocato penalista - La divulgazione delle generalità o dell’immagine di persona offesa da atti di violenza sessuale ovvero la previsione normativa di cui all'Art. 734 bis del Codice Penale.
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domenica 26 gennaio 2014

Avvocato penalista - E' diffamazione (art. 595 c. p.) anche il postare uno scritto offensivo sui social network o in altri luoghi del web; in questi casi si integra il reato di diffamazione internautica o tramite social network.

Avvocato penalista - E' diffamazione (art. 595 c. p.) anche il postare uno scritto offensivo sui social network o in altri luoghi del web; in  questi casi si integra il reato di diffamazione internautica o tramite social network.
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Lo ha stabilito il Tribunale di Livorno nella sua recente ed innovativa sentenza che qui segue.
 
E, personalmente, è una sentenza che stabilisce un principio di diritto che condivido totalmente e senza alcuna riserva, atteso che il mezzo usato, grazie alle nuove tecnologie a nostra disposizione, secondo me, aggrava e certo non sminuisce l'animus diffamandi.   
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Avvocato penalista - E' diffamazione (art. 595 c. p.) anche il postare uno scritto offensivo sui social network o in altri luoghi del web; in  questi casi si integra il reato di diffamazione internautica o tramite social network.
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L'Articolo 595 del Codice Penale, intitolato alla Diffamazione, prevede che:

Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1032,00 euro.

Se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a 2065,00 euro.

Se l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 516,00.

Se l'offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate.
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Fonte Guide Legali.it :
 
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Avvocato penalista - E' diffamazione (art. 595 c. p.) anche il postare uno scritto offensivo sui social network o in altri luoghi del web; in  questi casi si integra il reato di diffamazione internautica o tramite social network.
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sabato 25 gennaio 2014

Avvocato penalista - La Frode alimentare, il reato di cui all'art. 5 della Legge 30 aprile 1962, n°. 283.

Avvocato penalista - La Frode alimentare, il reato di cui all'art. 5 della Legge 30 aprile 1962, n°. 283.
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L'art. 5 della Legge 30 aprile 1962, n°. 283, disciplina il reato di Frode alimentare e prevede che:

E'  vietato  impiegare  nella  preparazione  di alimenti o bevande, vendere,  detenere per vendere o somministrare come mercede ai propri dipendenti,   o   comunque   distribuire  per  il  consumo,  sostanze alimentari:

a)  private  anche  in  parte  dei  propri  elementi  nutritivi o mescolate  a  sostanze  di  qualità inferiore o comunque trattate in modo  da  variarne la composizione naturale, salvo quanto disposto da leggi e regolamenti speciali;

b) in cattivo stato di conservazione;

c)  con  cariche  microbiche  superiori  ai  limiti  che  saranno stabiliti dal regolamento di esecuzione o da ordinanze ministeriali;

d)  insudiciate,  invase  da parassiti, in stato di alterazione o comunque  nocive,  ovvero  sottoposte  a  lavorazioni  o  trattamenti diretti a mascherare un preesistente stato di alterazione;
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Avvocato penalista - La Frode alimentare, il reato di cui all'art. 5 della Legge 30 aprile 1962, n°. 283.
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e) LETTERA SOPPRESSA DALLA L. 26 FEBBRAIO 1963, N. 441;

f) LETTERA SOPPRESSA DALLA L. 19 FEBBRAIO 1992, N. 142;

Questa  indicazione,  se  non  espressamente  prescritta  da  norme speciali,  potrà  essere  omessa quando la colorazione è effettuata mediante  caramello,  infuso  di  truciolo  di quercia, enocianina ed
altri colori naturali consentiti;

g)  con  aggiunta  di  additivi  chimici  di qualsiasi natura non autorizzati  con  decreto del Ministro per la sanità' o, nel caso che siano  stati  autorizzati  senza la osservanza delle norme prescritte per il loro impiego.
I decreti di autorizzazione sono soggetti a revisioni annuali;

h)  che  contengano residui di prodotti, usati in agricoltura per la  protezione  delle  piante  e  a  difesa delle sostanze alimentari immagazzinate, tossici per l'uomo.

Il  Ministro per la sanità, con propria ordinanza, stabilisce per ciascun prodotto, autorizzato all'impiego per tali scopi, i limiti di tolleranza  e  l'intervallo minimo che deve intercorrere tra l'ultimo trattamento e la raccolta e, per le sostanze alimentari immagazzinate, tra l'ultimo trattamento e l'immissione al consumo.
 
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AGGIORNAMENTO

La L. 19 febbraio 1992, n. 142 ha disposto (con l'art. 57, comma 1) che  "A  partire dalla data di entrata in vigore del provvedimento di attuazione  della  direttiva 89/107/CEE, e comunque con effetto dal 1 luglio  1992,  è soppressa la lettera f) dell'articolo 5 della legge 30 aprile 1962, n. 283".

Le pene previste per la commissione del reato in esame sono comminate dal successivo art. 6:

La produzione, il commercio, la vendita delle sostanze di cui alla lettera h) dell'articolo precedente - fitofarmaci e presidi delle derrate alimentari immagazzinate - sono soggetti ad autorizzazione del Ministero della sanità, a controllo e a registrazione come presidi sanitari. (comma abrogato).

Tale disposizione non si applica ai surrogati o succedanei disciplinati da leggi speciali, salvo il controllo del Ministero della sanità per quanto attiene alla composizione, all'igienicità e al valore alimentare di essi.
 
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, i contravventori alle disposizioni del presente articolo e dell'articolo 5 sono puniti con l'arresto fino ad un anno o con l'ammenda da € 309 a € 30.987.

Per la violazione delle disposizioni di cui alle lettere d) e h) dell'articolo 5 si applica la pena dell'arresto da tre mesi ad un anno o dell'ammenda da € 2.582 a € 46.481.
 
In caso di condanna per frode tossica o comunque dannosa alla salute non si applicano le disposizioni degli articoli 163 e 175 del Codice penale.
 
Nei casi previsti dal precedente comma, la condanna importa la pubblicazione della sentenza in uno o più giornali, a diffusione nazionale, designati dal giudice, nei modi stabiliti nel terzo comma dell'articolo 36 del Codice penale.

""" Frode alimentare, prova testimoniale dei dipendenti
Suprema Corte di Cassazione - Terza Sezione Penale
Sentenza 20 giugno - 12 settembre 2013, n. 37380
Presidente Teresi – Relatore Ramacci
 
La Terza sezione penale della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza che si riporta in seguito, depositata il 20 giugno 2013, ha affermato che, ai fini dell’accertamento del cattivo stato conservativo di alimenti detenuti per essere venduti, il giudice di merito può ritenere che i fatti siano provati anche attraverso elementi di prova quali testimonianze di dipendenti addetti alla vigilanza, non essendo più necessarie verifiche tecniche sull'effettivo stato di conservazione degli alimenti. """

Fonte sentenze-cassazione.com :

http://www.sentenze-cassazione.com/frode-alimentare-prova-testimoniale-dei-dipendenti/

Per leggere il testo della sentenza, cliccare al seguente link:

http://www.sentenze-cassazione.com/wp-content/uploads/2014/01/Sentenza-12-09-2013-n.-37380.pdf
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Avvocato penalista - La Frode alimentare, il reato di cui all'art. 5 della Legge 30 aprile 1962, n°. 283.
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venerdì 24 gennaio 2014

Avvocato penalista - Lesioni personali colpose aggravate, il delitto previsto e punito dall'art. 590 c. p., in relazione all'art. 583 c. p.

Avvocato penalista - Lesioni personali colpose aggravate, il delitto previsto e punito dall'art. 590 c. p., in relazione all'art. 583 c. p.
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I medici ed i chirurghi devono osservare costantemente e scrupolosamente le norme di legge e scientifiche dettate per l'esercizio della loro professione, nei rispettivi settori specialistici in cui operano, altrimenti possono essere anche imputati e sanzionati penalmente, come nel caso di cui qui si tratta.
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Avvocato penalista - Lesioni personali colpose aggravate, il delitto previsto e punito dall'art. 590 c. p., in relazione all'art. 583 c. p.
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L'imputazione, nel caso specifico, è stata quella di cui all'art. 590, comma 2, c. p. in relazione all'art. 583, comma 1,  n°. 1, c. p.

L'art. 590 del Codice Penale, intitolato alle Lesioni personali colpose, prevede che: 

Chiunque cagiona ad altri, per colpa, una lesione personale (582) è punito con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a 309 euro.

Se la lesione è grave (583), la pena è della reclusione da uno a sei mesi o della multa da 123 euro a 619 euro; se è gravissima (583), della reclusione da tre mesi a due anni o della multa da 309 euro a 1239 euro.

Se i fatti di cui al precedente capoverso sono commessi con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o di quelle per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, la pena per le lesioni gravi è reclusione da tre mesi a un anno o della multa da euro 500 a euro 2.000 e la pena per le lesioni gravissime è della reclusione da uno a tre anni.

Nei casi di violazione delle norme sulla circolazione stradale, se il fatto è commesso da soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell'articolo 186, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni, ovvero da soggetto sotto l'effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope, la pena per le lesioni gravi è della reclusione da sei mesi a due anni e la pena per le lesioni gravissime è della reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni.

Nel caso di lesioni di più persone si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse, aumentata fino al triplo; ma la pena della reclusione non può superare gli anni cinque.

Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo nei casi previsti nel primo e secondo capoverso, limitatamente ai fatti commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all'igiene del lavoro o che abbiano determinato una malattia professionale.

L'art. 583 del Codice Penale, intitolato alle Circostanze aggravanti, prevede che:

La lesione personale è grave e si applica la reclusione da tre a sette anni:
 
1) se dal fatto deriva una malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa, ovvero una malattia o un`incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai quaranta giorni;
 
2) se il fatto produce l'indebolimento permanente di un senso o di un organo;

[3) se la persona offesa è una donna incinta e dal fatto deriva l'acceleramento del parto.] (1)

La lesione personale è gravissima, e si applica la reclusione da sei a dodici anni, se dal fatto deriva:

1) una malattia certamente o probabilmente insanabile;

2) la perdita di un senso;

3) la perdita di una arto, o una mutilazione che renda l'arto inservibile, ovvero la perdita dell'uso di un organo o della capacità di procreare, ovvero una permanente e grave difficoltà della favella;
 
4) la deformazione, ovvero lo sfregio permanente del viso;

5) l'aborto della persona offesa.

(1) Il numero 3 del presente comma è stato abrogato dall'art. 22, L. 22.05.1978, n. 194.
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""" Balduzzi, protesi al seno, responsabilità penale, chirurgo.
Suprema Corte di Cassazione - Sesta Sezione Penale
Sentenza n. 2347 del 20 gennaio 2014

La Cassazione, con la sentenza che si riporta, ha affermato la rilevanza penale per colpa grave nell'ambito della professione medica l'errore del chirurgo o alla poca abilità di questo nell'utilizzare gli strumenti necessari per compiere l'operazione nonché quello originato dalla mancata prudenza e diligenza indispensabile per chi esercita la suddetta professione. """

Fonte sentenze-cassazione.com :

http://www.sentenze-cassazione.com/balduzzi-protesi-al-seno-responsabilita-penale-chirurgo/

Per leggere il testo della sentenza, cliccare al seguente link:

http://www.sentenze-cassazione.com/wp-content/uploads/2014/01/21-01-2014-Corte-di-cassazione-Sezione-VI-penale-Sentenza-20-gennaio-2014-n.-2347.pdf .
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Avvocato penalista - Lesioni personali colpose aggravate, il delitto previsto e punito dall'art. 590 c. p., in relazione all'art. 583 c. p.
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giovedì 23 gennaio 2014

Avvocato penalista - La Frode nell'esercizio del commercio o Frode in commercio , il reato previsto e punito dall'Articolo 515 del Codice Penale.

Avvocato penalista - La Frode nell'esercizio del commercio o Frode in commercio, il reato previsto e punito dall'Articolo 515 del Codice Penale.

La Corte di Cassazione ha stabilito, con la sentenza che qui viene evidenziata, che ricorre l'ipotesi del tentativo di Frode nell'esercizio del commercio nel caso da essa vagliato di un ristorante che utilizzava in cucina dei prodotti congelati senza indicarli nel menù.

L'imputazione formulata a carico di entrambi i titolari di quel ristorante - e rimasta immutata fino al grado di cassazione del giudizio penale celebratosi a loro carico - è stata quella di cui agli artt. 56 c. p. (il Delitto tentato), 110 c. p. (la Pena per coloro che concorrono nel reato) e 515 c. p. (la Frode nell'esercizio del commercio) ossia il tentativo di Frode nell'esercizio del commercio in concorso o di Frode in commercio.

L'Articolo 515 del Codice Penale, intitolato alla Frode nell'esercizio del commercio, prevede che:
 
Chiunque, nell'esercizio di una attività commerciale, ovvero in uno spaccio aperto al pubblico, consegna all'acquirente una cosa mobile per un'altra, ovvero una cosa mobile, per origine, provenienza, qualità o quantità, diversa da quella dichiarata o pattuita, è punito, qualora il fatto non costituisca un più grave delitto, con la reclusione fino a due anni o con la multa fino a 2065 euro.

Se si tratta di oggetti preziosi, la pena è della reclusione fino a tre anni o della multa non inferiore a 103 euro.

A mio modesto avviso, sia l'imputazione, che le 3 sentenze, sono sbagliate e spiego perché.

In nessuna di esse è contenuto alcun riferimento all'approfondimento della verifica ispettiva eseguita nel ristorante incriminato e, dunque, se ne deve dedurre che i verificatori non hanno appurato, com'era nei loro elementari doveri, se i cibi congelati da essi rinvenuti nei frigoriferi del ristorante esaminato e non indicati nei suoi menù, quanto a qualità, origine e stato, corrispondevano o meno alle quantità evidenziate nelle rispettive fatture di acquisto.

Una verifica essenziale, che avrebbe appurato se o se non fossero stati già somministrati ai clienti.

Accertamento che, se effettuato, avrebbe fatto emergere l'effettività dei fatti moncamente accertati e che hanno portato sia ad una sentenza sbagliata, che ad un'occasione mancata di rendere giustizia.

Se a quanto precede si aggiunge l'ovvia considerazione che nessun ristoratore ripone nei frigoriferi del suo esercizio pubblico cibi che non sa dove o non può mettere altrove, ma soltanto per utilizzarli nel suo pubblico esercizio, se ne deve dedurre che il delitto di cui all'art. 515 c. p., nel caso di specie, non è stato un delitto tentato, ma un delitto più volte già consumato.
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Avvocato penalista - La Frode nell'esercizio del commercio o Frode in commercio, il reato previsto e punito dall'Articolo 515 del Codice Penale.
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""" Frode alimentare, indicare, cibo congelato, ristorante, tentativo.

Suprema Corte di Cassazione - Terza Sezione Penale
Sentenza 2 ottobre - 5 novembre 2013 n. 44643
Presidente Mannino – Relatore Lombardi

Con la sentenza che riportiamo, la Cassazione ha trattato il caso di un ristorante che utilizzava in cucina dei prodotti congelati senza indicarli nel menù.
 
Secondo quanto è stato deciso dai giudici di Piazza Cavour, si configura la frode in commercio e, dunque, sebbene in primo grado il giudice aveva escluso che la semplice detenzione, all’interno di un frigorifero, di merce congelata e la mancata indicazione nella lista delle vivande di detta qualità integrasse la fattispecie degli atti idonei diretti in modo non equivoco alla vendita fraudolenta, la Corte d'Appello affermava che tale condotta integrasse l’ipotesi del tentativo di frode in commercio ciò non condiviso dai giudici della massima corte poiché tale risultato non sarebbe in linea con le recenti decisioni prese sulla materia.
 
Infatti, i giudici di legittimità hanno stabilito che “anche la mera disponibilità di alimenti surgelati, non indicati come tali nel menu, nelle cucina di un ristorante, configura il tentativo di frode in commercio, indipendentemente dall’inizio di una concreta contrattazione con il singolo avventore” (sez. 3, sentenza n. 6885 del 18/11/2008, Chen, Rv. 242736; sentenze precedenti conformi: n. 10145 del 2002 Rv. 221461, n. 19395 del 2002 Rv. 221958, n. 14806 del 2004 Rv. 227964, n. 24190 del 2005 Rv. 231946, n. 23099 del 2007 Rv. 237067), orientamento dal quale la Suprema Corte, nella sentenza in commento, non ritiene di discostarsi".
 
Per gli ermellini, infine, "la questione civilistica della cosiddetta offerta al pubblico, non revocabile se non con le medesime forme, di cui trattano la sentenza impugnata ed il ricorso per contestarne le affermazioni, non appare affatto dirimente, né rilevante, ai fini della configurabilità del tentativo".

Infatti "la questione della revocabilità dell’offerta contenuta nel menu, infatti, può assumere rilevanza solo ai fini della configurabilità della desistenza, atta ad escludere il reato nell’ipotesi in cui il ristoratore, a seguito della richiesta del cliente di una determinata pietanza, rifiuti di consegnare l’aliud pro alio, ma non incide sul perfezionamento della fattispecie del tentativo, che si consuma con la mancata indicazione nel menu della qualità degli alimenti surgelati o congelati". """

Fonte sentenze-cassazione.com :

http://www.sentenze-cassazione.com/frode-alimentare-cibo-congelato-ristorante-tentativo/

Per leggere la motivazione della sentenza, cliccare al seguente link:

http://www.sentenze-cassazione.com/sentenze-cassazione-2013/sentenza-frode-alimentare-cibo-congelato-ristorante/
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Avvocato penalista - La Frode nell'esercizio del commercio o Frode in commercio, il reato previsto e punito dall'Articolo 515 del Codice Penale.
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mercoledì 22 gennaio 2014

Avvocato penalista - Il Concorso di reati e le norme (penali) a più fattispecie.

Avvocato penalista - Il Concorso di reati e le norme (penali) a più fattispecie.
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Avvocato penalista - Il Concorso di reati e le norme (penali) a più fattispecie.
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"" Concorso di reati e norme a più fattispecie – Cass. Pen. 1856/2014
Scritto da Guido Stampanoni Bassi   il 20 gennaio 2014
 
Cassazione Penale, Sez. II, 17 gennaio 2014 (ud. 17 dicembre 2013), n. 1856
Presidente Casucci, Relatore Rago
 
1. Con l’interessante pronuncia in annotazione la seconda sezione penale torna a pronunciarsi sull’operatività del concorso di reati all’interno delle cd. norme penali miste.
 
E’ un tema, questo, più volte affrontato dalla giurisprudenza che nell’occasione è stata chiamata a fare i conti con il reato di cui all’art. 642 c.p.
 
2. Nella sentenza che si segnala i giudici di legittimità, in particolare, hanno affermato che non sussiste alcun  rapporto di alternatività formale tra le condotte tipizzate nel primo e nel secondo comma dell’art. 642 cod. pen., trattandosi di fattispecie di reato differenti e dotate di autonoma rilevanza penale che, quindi – ove ne siano integrati gli estremi fattuali – possono concorrere fra loro.
 
Ricordiamo che l’art. 642 c.p. – rubricato “fraudolento danneggiamento dei beni assicurati e mutilazione fraudolenta della propria persona” – dispone al primo comma:
 
Chiunque, al fine di conseguire per sé o per altri l’indennizzo di una assicurazione o comunque un vantaggio derivante da un contratto di assicurazione, distrugge, disperde, deteriora od occulta cose di sua proprietà, falsifica o altera una polizza o la documentazione richiesta per la stipulazione di un contratto di assicurazione è punito con la reclusione da uno a cinque anni; al secondo comma.
 
Alla stessa pena soggiace chi al fine predetto cagiona a se stesso una lesione personale o aggrava le conseguenze della lesione personale prodotta da un infortunio o denuncia un sinistro non accaduto ovvero distrugge, falsifica, altera o precostituisce elementi di prova o documentazione relativi al sinistro. Se il colpevole consegue l’intento la pena è aumentata. Si procede a querela di parte.
 
I giudici della seconda sezione prendono le mosse dalla individuazione di tutte le diverse ipotesi riconducibili alla disposizione in esame – cinque in tutto: a) danneggiamento dei beni assicurati; b) falsificazione o alterazione della polizza; c) mutilazione fraudolente della propria persona; d) denuncia di sinistro non avvenuto; e) falsificazione o alterazione della documentazione relativa al sinistro – e si interrogano sulla eventualità che le ipotesi di cui al comma 1 e 2 possano concorrere ove l’agente ponga in essere una o più delle condotte richiamate. In secondo luogo – precisano i giudici – andrà ulteriormente precisato se il concorso sia ammissibile solo tra le ipotesi di cui al comma 1 o anche tra le ipotesi previste all’interno di ciascun comma.
 
Come anticipato, nel risolvere la questione la Corte ha ritenuto fondamentale inquadrare correttamente da un punto di vista giuridico la norma con cui ci si sta confrontando; norma che secondo i giudici rientrerebbe nella categoria delle cd. norme penali miste.
 
All’interno di questa categoria è possibile individuare le cd. norme a più fattispecie  (norme miste alternative) e le cd. disposizioni a più norme (norme miste cumulative).
 
Le prime descrivono una pluralità di condotte fungibili con le quali può essere integrata in via alternativa una unica norma incriminatrice; le seconde, al contrario, contengono tante norme incriminatrici quante sono le fattispecie legislativamente previste, nel senso che le condotte non sono alternative tra loro, bensì costituiscono differenti elementi materiali di altrettanti reati.
 
Risulta evidente come il collocare la disposizione in esame nella prima o nella seconda categoria non sia privo di conseguenze: nel primo caso, l’eventuale realizzazione di più condotte lascia intatta l’unicità del reato; nel secondo caso,  la pluralità di condotte darà luogo ad un concorso di reati.
 
3. Segnaliamo ai lettori che recentemente la quinta sezione penale con la sentenza n. 37362/2013 si era pronunciata su un caso analogo affermando come, nelle ipotesi di norme a più fattispecie, deve escludersi il concorso formale di reati qualora il fatto integri più condotte tipiche e queste vengano realizzate sul medesimo oggetto materiale senza apprezzabile soluzione di continuità.
 
Quanto ai criteri discretivi tra le due categorie di norme inciminatrici, si osserva come il riconoscimento di una norma a più fattispecie sia condizionato al rispetto dei seguenti requisiti: identità oggettiva (le condotte devono avere lo stesso oggetto materiale), identità soggettiva (le condotte devono essere compiute dallo stesso soggetto), identità cronologica (devono essere contestuali) e identità psicologico funzionale (devono essere indirizzate verso un unico fine).
 
Soltanto ove sussistano tali presupposti – afferma la Corte – è possibile affermare di trovarsi al cospetto di un unico titolo di reato, cosicchè il reo sarà chiamato a rispondere di un solo illecito sebbene, sotto l’aspetto materiale, abbia tenuto più condotte.
 
In conclusione, l’art. 642 c.p. si presenta come una norma penale mista del tutto peculiare che accorpa in sé sia la qualifica di disposizione a più norme sia quella di norma a più fattispecie. Dal momento che ciascun comma prevede ipotesi diverse di reato, ove ne ricorrano gli estremi fattuali, le medesime concorrono tra loro e non si ha unicità di reato. ""
 
Fonte giurisprudenzapenale.com , qui:
 
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Avvocato penalista - Il Concorso di reati e le norme (penali) a più fattispecie.
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martedì 21 gennaio 2014

Avvocato penalista - La Responsabilità medica e la colpa lieve, ex art. 3 della L. 189/2012 (cosiddetto Decreto Balduzzi).

Avvocato penalista - La Responsabilità medica e la colpa lieve, ex art. 3 della L. 189/2012 (cosiddetto Decreto Balduzzi).
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Avvocato penalista - La Responsabilità medica e la colpa lieve, ex art. 3 della L. 189/2012 (cosiddetto Decreto Balduzzi).
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"" Responsabilità medica e “colpa lieve” ex art. 3 L. 189/2012 (Decreto Balduzzi) – Cass. Pen. 660/2013
Scritto da Redazione Giurisprudenza Penale   il 27 gennaio 2014

Cassazione Penale, Sez. V, 10 gennaio 2014 (ud. 13 novembre 2013), n. 660
Presidente Palla, Relatore Zaza

Depositata il 10 gennaio 2014 una nuova pronuncia della quinta sezione in tema di responsabilità medica.

La Corte di Cassazione, in particolare, ha escluso la configurabilità della colpa lieve contemplata dall’art 3 della legge n. 189 del 2012, in relazione alla condotta del primario di un reparto di ginecologia che ebbe a rinviare un parto cesareo già programmato come intervento urgente, non impedendo in tal modo l’interruzione della gravidanza della paziente ricoverata con una diagnosi di epatogestosi.

Ricordiamo che in seguito al recente art. 3 della legge 8 novembre 2012, n. 189 (conversione del cd. decreto Balduzzi) “L’esercente le professioni sanitarie che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”.

I giudici della Suprema Corte hanno escluso che tale condotta, non accompagnata oltretutto da un monitoraggio cardiografico laddove erano stati evidenziati sintomi di tachicardia fetale, fosse conforme “a buone pratiche” accreditate dalla comunità scientifica così come richiesto dalla nuova normativa ai fini dell’esclusione della responsabilità penale del sanitario.

Fonte giurisprudenzapenale.com , qui:

http://www.giurisprudenzapenale.com/2014/01/27/responsabilita-medica-e-art-3-decreto-balduzzi-cass-pen-6602013/
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Avvocato penalista - La Responsabilità medica e la colpa lieve, ex art. 3 della L. 189/2012 (cosiddetto Decreto Balduzzi).
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lunedì 20 gennaio 2014

Avvocato penalista - In caso di esercizio abusivo della professione forense la abusività riguarda la mancata iscrizione nell’albo e non l’abilitazione ad esercitare.

Avvocato penalista - In caso di esercizio abusivo della professione forense la abusività riguarda la mancata iscrizione nell’albo e non l’abilitazione ad esercitare.
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Avvocato penalista - In caso di esercizio abusivo della professione forense la abusività riguarda la mancata iscrizione nell’albo e non l’abilitazione ad esercitare.
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"" Esercizio abusivo della professione: la abusività riguarda l’iscrizione nell’albo e non l’abilitazione
Scritto da Redazione Giurisprudenza Penale il 14 gennaio 2014
 
Cassazione Penale, Sez. V, 10 gennaio 2014 (ud. 6 novembre 2013), n. 646
Presidente Ferrua, Relatore Demarchi Albengo, P. G. Izzo
 
Depositata il 10 gennaio 2014 la pronuncia numero 646 in tema di esercizio abusivo della professione di avvocato.
 
L’imputato – che aveva superato l’esame di abilitazione da avvocato ma non si era iscritto all’albo – era imputato dei reati di cui agli articoli 348 e 495 del codice penale per avere esercitato la professione di avvocato senza essere iscritto nel relativo albo e per essersi qualificato come avvocato in atti compiuti davanti a giudici ed altri pubblici ufficiali.
 
Dopo essere stato condannato sia in primo grado sia in appello alla pena di quattro mesi di reclusione, proponeva ricorso per cassazione deducendo, tra gli altri motivi, inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 348 c.p. sostenendo come l’elemento costitutivo del reato in esame dovesse ravvisarsi nella mancanza dell’abilitazione all’esercizio della professione forense, e non nella mancata iscrizione nell’albo di categoria, che riguarderebbe esclusivamente le modalità di esercizio della professione, ma non l’accesso ad essa.
 
Nel ritenere infondato il motivo la Corte ha osservato come la giurisprudenza sia ormai consolidata nel ritenere che integra il delitto di esercizio abusivo della professione di avvocato la condotta di chi, conseguita l’abilitazione statale, eserciti l’attività professionale prima di aver ottenuto l’iscrizione all’albo professionale (v. in senso conforme Sez. 6, n. 27440 del 19/01/2011, Sgambati, Rv. 250531).
 
La Corte prosegue richiamando sia la recente pronuncia a sezioni unite (Sez. Un., n. 11545 del 15/12/2011, Cani, Rv. 251819 nella quale si era affermato il principio secondo cui “integra esercizio abusivo di una professione, punibile a norma dell’art. 348 c.p., non solo il compimento senza titolo, anche se posto in essere occasionalmente e gratuitamente, di atti da ritenere attribuiti in via esclusiva a una determinata professione, ma anche il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva, siano univocamente individuati come di competenza specifica di una data professione, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e almeno minimale organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un’attività professionale svolta dal soggetto regolarmente abilitato” sia la giurisprudenza secondo cui l’art. 348 c.p. trova la propria ratio nella necessità di tutelare l’interesse generale, di pertinenza della pubblica amministrazione, a che determinate professioni, richiedenti particolari requisiti di probità e competenza tecnica, vengano esercitate soltanto da chi, avendo conseguito una speciale abilitazione amministrativa, risulti in possesso delle qualità morali e culturali richieste dalla legge (in tal senso, testualmente, Sez. 6, n. 1207 del 15/11/1982, dep. 1985, Rossi, Rv. 167698).
 
Il conseguimento del titolo, in sostanza, costituisce il presupposto (principale ma non esclusivo) per la iscrizione in appositi albi, tenuti dai rispettivi ordini, con riferimento ai quali l’iscrizione si pone come condizione per l’esercizio della professione: di conseguenza, la “abusività” prevista dalla norma in questione non può che essere ricondotta alla mancanza della iscrizione nell’albo e non alla mancanza di abilitazione.
 
D’altronde – conclude la Corte – se l’iscrizione all’albo non fosse requisito essenziale per l’esercizio della professione legale, non configurerebbe il reato de quo la condotta di colui che continui ad esercitare la professione nonostante la intervenuta sospensione o radiazione dall’albo; ma anche tale interpretazione, oltre che scarsamente giustificabile sotto il profilo logico e normativo, si porrebbe ancora una volta in contrasto con i pregressi orientamenti giurisprudenziali. ""
 
Fonte giurisprudenzapenale.com , qui:
 
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Avvocato penalista - In caso di esercizio abusivo della professione forense la abusività riguarda la mancata iscrizione nell’albo e non l’abilitazione ad esercitare.
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