http://www.avvocato-penalista-cirolla.blogspot.com/google4dd38cced8fb75ed.html Avvocato penalista ...: marzo 2015

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martedì 31 marzo 2015

Avvocato penalista - Il reato di Violenza sessuale di gruppo, Articolo 609 octies del Codice Penale, non richiede che tutte le persone riunite compiano atti di violenza sessuale sulla vittima.

Avvocato penalista - Il reato di Violenza sessuale di gruppo, Articolo 609 octies del Codice Penale,  non richiede che tutte le persone riunite compiano atti di violenza sessuale sulla vittima.
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Avvocato penalista - Il reato di Violenza sessuale di gruppo, Articolo 609 octies del Codice Penale,  non richiede che tutte le persone riunite compiano atti di violenza sessuale sulla vittima.
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"" Violenza sessuale di gruppo: non è richiesto che tutte le persone riunite compiano atti di violenza sessuale
 
Cassazione Penale, Sez. III, 13 gennaio 2015 (ud. 7 ottobre 2014), n. 948
Presidente Teresi, Relatore Di Nicola, P.G. Canevelli
 
Depositata il 13 gennaio 2015 la pronuncia numero 948, della terzasezione penale, in tema di violenza sessuale di gruppo ex art. 609-octies c.p., ai sensi del quale:
 
La violenza sessuale di gruppo consiste nella partecipazione, da parte di più persone riunite, ad atti di violenza sessuale di cui all’articolo 609-bis.
 
Chiunque commette atti di violenza sessuale di gruppo è punito con la reclusione da sei a dodici anni.
 
La pena è aumentata se concorre taluna delle circostanze aggravanti previste dall’articolo 609-ter.
 
La pena è diminuita per il partecipante la cui opera abbia avuto minima importanza nella preparazione o nella esecuzione del reato.
 
La pena è altresì diminuita per chi sia stato determinato a commettere il reato quando concorrono le condizioni stabilite dai numeri 3) e 4) del primo comma e dal terzo comma dell’articolo 112.
 
Nel caso di specie, la Corte d’appello ha ritenuto che il ricorrente condusse la vittima nel luogo in cui fu violentata (ossia nell’abitazione dell’imputato), che l’atto di violenza fu perpetrato dal complice del ricorrente e che quest’ultimo, pur non essendo presente nella stanza ove si svolse l’atto di violenza, rimase in casa (verosimilmente dietro la porta, comunque in una condizione tale da consentirgli di intervenire e presidiare) così determinando nella vittima la certezza che ogni via d’uscita gli era preclusa.
 
Sostiene il ricorrente che il reato previsto dall’art. 609 octies cod. pen. non sarebbe configurabile in mancanza sia della simultanea presenza dei correi nel luogo della violenza e sia della prova circa l’intervenuto accordo dei compartecipi.
 
Osserva la Corte che il reato di violenza sessuale di gruppo (previsto dall’art. 609-octies che è stato introdotto nel codice penale dalla L. 15 febbraio 1996, n. 66, art. 9) integra senza dubbio una fattispecie plurisoggettiva a concorso necessario, nel senso che la pluralità degli agenti rappresenta un elemento costitutivo del fatto tipico ma non esaurisce la connotazione del modello legale di reato, il quale richiede, oltre alla pluralità dei soggetti agenti, che agli atti di violenza sessuale di cui all’art. 609 bis cod. pen. partecipino più persone riunite.
 
Tuttavia, quanto alla partecipazione punibile e quindi alla configurazione stessa del reato di violenza sessuale di gruppo, non è affatto richiesto che tutte “le persone riunite” compiano atti di violenza sessuale ma è necessaria l’effettiva presenza di esse nel luogo e nel momento di consumazione del reato, posto che occorre tenere conto della forza di intimidazione che la presenza delle più persone riunite esercita sulla vittima dell’abuso sessuale e che costituisce la ratio dell’incriminazione, distinguendo la violenza sessuale di gruppo dal concorso di persone nel reato di violenza sessuale, avendo il legislatore voluto rafforzare la tutela del bene protetto dall’incriminazione di cui all’art. 609 bis attraverso la previsione di una autonoma e più grave fattispecie incriminatrice (l’art. 609-octies) che tenesse pienamente conto del maggior disvalore penale del fatto derivante dall’apporto causale fornito nell’esecuzione del reato dalla presenza dei concorrenti nel locus commissi delicti produttiva di un’accentuata carica intimidatoria esercitata sulla vittima.
 
Ciò se induce a ritenere, come questa Corte ha più volte affermato, che è sufficiente e necessario che almeno due persone siano presenti sul luogo ove la vittima è abusata ed al momento in cui gli atti di violenza sessuale sono compiuti da uno di loro, traendo costui forza dalla presenza degli altri, non è tuttavia richiesto, per l’integrazione della fattispecie incriminatrice, che tutti i componenti del gruppo compiano gli atti di violenza o che assistano ad essi, bastando che abbiano apportato un contributo causale all’esecuzione del delitto e siano presenti nel luogo della violenza al momento dell’esecuzione del reato, potendo durante l’iter criminis intervenire in qualsiasi momento (Sez. 3, n. 6464 del 05/04/2000, Giannuzzi, Rv. 216978; Sez. 3, n. 15089 dell’11/03/2010, Rossi, Rv. 246614).
 
Tale conclusione – affermano i giudici – è avvalorata da un’interpretazione sistematica della fattispecie incriminatrice dato che il quarto comma dell’art. 609 octies cod. pen. prevede una circostanza attenuante per il partecipe la cui opera abbia avuto una minima importanza nella fase preparatoria o esecutiva del reato.
 
Inconcepibile ravvisare il contributo di minima importanza nell’ipotesi di partecipazione diretta del correo agli atti di violenza sessuale (Sez. 3, n. 31842 del 02/04/2014, P.G. in proc. M., Rv. 259939), si deve necessariamente ritenere che il fatto tipico è integrato anche in assenza del diretto compimento di atti sessuali da parte di uno dei concorrenti.
 
Ciò non significa che ogni qualvolta manchi il diretto compimento di atti sessuali sussiste il requisito della minima importanza del contributo offerto dal concorrente necessario ma vuol dire che la partecipazione penalmente rilevante, prescindendo dalla partecipazione diretta all’atto di violenza sessuale, è compatibile con qualsiasi altra forma di partecipazione criminosa a condizione che sussista il requisito delle persone riunite.
 
Tale ultima condizione (quella riguardante le più persone riunite) – conclude la Corte – è integrata tutte le volte in cui, al momento e nel luogo della commissione della violenza, siano presenti almeno due persone, la cui contemporanea presenza è assicurata anche da colui che non assista o non compia materialmente gli atti di violenza sessuale allorquando possa agevolmente intervenire in qualsiasi momento della fase esecutiva del delitto o si limiti a presidiare il luogo di esecuzione del crimine. ""
 
Fonte giurisprudenzapenale.com, qui:
 
 
Avvocato penalista - Il reato di Violenza sessuale di gruppo, Articolo 609 octies del Codice Penale,  non richiede che tutte le persone riunite compiano atti di violenza sessuale sulla vittima.
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lunedì 30 marzo 2015

Avvocato penalista - Il reato non può dichiararsi estinto se il ricorso per cassazione è inammissibile e la prescrizione è maturata dopo la condanna.

Avvocato penalista - Il reato non può dichiararsi estinto se il ricorso per cassazione è inammissibile e la prescrizione è maturata dopo la condanna.
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Avvocato penalista - Il reato non può dichiararsi estinto se il ricorso per cassazione è inammissibile e la prescrizione è maturata dopo la condanna.
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"" Cassazione, se il ricorso è inammissibile non si estingue il reato
 
Se il ricorso è inammissibile non si estingue il reato
 
Suprema Corte di Cassazione Prima Sezione Penale
Sentenza del 19 giugno 2013, n. 26666
 
Con la Sentenza che di seguito si riporta la Cassazione ha trattato il tema dell’inammissibilità genetica dell’impugnazione per difetto di specificità o manifesta infondatezza delle censure e, nello specifico, ha chiarito che nel caso in cui non si consente la valida formazione di un rapporto di impugnazione viene meno anche la possibilità di far valere o rilevare d’ufficio la causa estintiva maturata nelle more della trattazione del ricorso per cassazione.
 
…omissis…
 
.1 In particolare, con statuizione conforme a quanto già esposto dal giudice di primo grado, la Corte territoriale ha evidenziato come l’imputato avesse personalmente avanzato istanza per ottenere il rilascio della carta di soggiorno, allegandovi il certificato unico rilasciato alla moglie dal di lei datore di lavoro, documento quindi in suo possesso, recante l’indicazione di un importo complessivo per reddito da lavoro dipendente di circa tre volte superiore a quello risultante dagli accertamenti condotti presso l’Agenzia delle Entrate di Licata e quindi da ritenersi materialmente falso.
 
Ha quindi attribuito la confezione di tale certificato all’attività o all’istigazione del ricorrente in quanto unico soggetto interessato a far apparire esistenti i requisiti reddituali, necessari per conseguire il rilascio della carta di soggiorno, escludendo del pari che plausibile interesse potesse aver avuto il datore di lavoro al rilascio di un documento per redditi superiori a quelli realmente erogati, per di più difforme da quelli presentati all’I.N.P.S. ed agli uffici finanziari, ragione per la quale è stato ritenuto superfluo procedere a perizia grafologica per accertare l’autenticità o meno della sottoscrizione presente sul documento in contestazione.
 
1.2 A tali ragionevoli ed argomentati rilievi il ricorrente oppone una possibile, ma meramente ipotetica, ricostruzione alternativa circa l’interesse del datore di lavoro a presentare all’ente previdenziale un certificato esponente redditi inferiori al corrisposto per versare minori oneri contributivi; in tal modo prospetta una mera illazione, priva di certo supporto dimostrativo, che, come tale, non può nemmeno essere presa in seria considerazione in questa fase di legittimità e che risulta anche smentita dalla circostanza che i redditi in misura inferiore a quanto riportato nel “cud” contraffatto erano stati indicati anche all’Ufficio delle Entrate e non soltanto all’I.N.P.S., come risulta dalla sentenza di primo grado, confermata sul punto da quella di appello.
 
E’ quindi logicamente insostenibile che lo stesso imprenditore possa avere volontariamente rilasciato due copie o due originali di contenuto differente dello stesso documento, destinati ad essere esibiti a pubbliche amministrazioni diverse, in grado di avvedersi della loro difformità mediante un banale ed usuale controllo incrociato.
 
2. In ordine alla questione, prospettata in via subordinata, dell’intervenuta estinzione del reato per prescrizione, premesso che effettivamente, secondo quanto già rilevato anche dal primo giudice, la data di commissione dell’illecito va stabilita nel momento di presentazione dell’istanza per il rilascio della carta di soggiorno, ossia al 17 aprile 2004, il termine massimo di sette anni e mezzo, stabilito a norma della vigente formulazione dell’art. 157 cod. pen., in quanto più favorevole all’imputato rispetto al regime in vigore al momento della consumazione del reato, sarebbe venuto a scadenza il 17 ottobre 2011 e non nel 2012 come erroneamente riportato nel ricorso.
 
Il procedimento ha però subito i seguenti periodi di sospensione: dal 17.1.2011 al 1.2.2012 ex art. 132 disp. att. cod. proc. pen., per un anno e quattordici giorni; dall’1.2.2012 al 7.3.2012 e dal 14.5.2012 al 5.10.2012 per ragioni di salute del difensore e dal 7.3.2012 al 14-5-2012 per ragioni di salute dell’imputato, per un periodo complessivo di anni uno, mesi sei, giorni quattordici, il che ha comportato la proroga per il corrispondente lasso di tempo del termine massimo di prescrizione con la sua scadenza nel maggio 2013, dopo comunque la pronuncia della sentenza impugnata.
 
2.1 Infine, va rilevato però che l’inammissibilità del principale motivo di ricorso per le ragioni già esposte impedisce la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione: come affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, l’inammissibilità genetica dell’impugnazione per difetto di specificità o manifesta infondatezza delle censure, non consentendo il formarsi di un valido rapporto d’impugnazione, interdice la possibilità di far valere o rilevare d’ufficio la causa estintiva maturata nelle more della trattazione del ricorso per cassazione (Cass. S.U. n. 32 del 22/11/2000, De Luca, rv. 217266; S.U. n. 33542 del 27/6/2001, Cavalera, rv. 219531, S.U. n. 23428 del 22/3/2005, Bracale, rv.
231164).
 
Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in ragione dei profili di colpa insiti nella proposizione di impugnazione di tale tenore, della somma che si stima equa di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
 
P.Q.M.
 
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.
 
Così deciso in Roma, il 13 giugno 2013.
 
Depositato in Cancelleria il 19 giugno 2013

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Fonte sentenze-cassazione.com, qui:
 
Avvocato penalista - Il reato non può dichiararsi estinto se il ricorso per cassazione è inammissibile e la prescrizione è maturata dopo la condanna.
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domenica 29 marzo 2015

Avvocato penalista - Il patteggiamento non è una dichiarazione di rinuncia alla prescrizione, atteso che l'Art. 157, comma 7, del Codice Penale richiede la rinuncia espressa e non la rinuncia tacita.

Avvocato penalista - Il patteggiamento non è una dichiarazione di rinuncia alla prescrizione, atteso che l'Art. 157, comma 7, del Codice Penale richiede la rinuncia espressa e non la rinuncia tacita.
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Avvocato penalista - Il patteggiamento non è una dichiarazione di rinuncia alla prescrizione, atteso che l'Art. 157, comma 7, del Codice Penale richiede la rinuncia espressa e non la rinuncia tacita.   
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"" Il patteggiamento è una dichiarazione di rinuncia alla prescrizione?
 
Il patteggiamento è una dichiarazione di rinuncia alla prescrizione?
 
Suprema Corte di Cassazione – Sezione Feriale
Ordinanza 34283/2013
 
La Suprema Corte di Cassazione (Sezione Feriale – Presidente Esposito) lo scorso 8 agosto 2013 ha rimesso alle Sezioni Unite una  questione di diritto riguardante la rinuncia alla prescrizione relazionato alla richiesta di applicazione della pena da parte dell’imputato.
 
Più nello specifico, il quesito proposto con l’ordinanza 34283/2013 evidenziava all’interno della giurisprudenza di legittimità un contrasto tra le decisioni prese nel passato da Piazza Cavour e, pertanto, si rinviava alle Sezioni Unite al fine di chiarire “se la presentazione della richiesta di applicazione della pena da parte dell’imputato o il consenso a quella proposta dal pubblico ministero costituiscano una dichiarazione legale tipica di rinuncia alla prescrizione non più revocabile ? “
 
Secondo un recente orientamento giurisprudenziale il fatto di accordarsi rappresenterebbe una forma di rinuncia espressa e non più revocabile alla prescrizione e, pertanto, quest’ultima non potrebbe richiamarsi in sede di impugnazione. In base a questa interpretazione la richiesta di patteggiamento creerebbe un accordo non più revocabile dalle parti facendo venir meno anche la possibile prescrizione.
 
Un diverso orientamento invece stabiliva che il giudice deve dichiarare anche d’ufficio l’intervenuta prescrizione (art. 129 c.p.p.) che estingue il reato e, pertanto, il patteggiamento non può essere considerata come un atto idoneo alla rinuncia alla prescrizione che invece presuppone una dichiarazione espressa e specifica.
 
Articolo 129 Codice di Procedura Penale Obbligo della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità
 
1. In ogni stato e grado del processo, il giudice, il quale riconosce che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato ovvero che il reato è estinto o che manca una condizione di procedibilità, lo dichiara di ufficio con sentenza [68, 69, 70, 444 2, 459].
 
2. Quando ricorre una causa di estinzione del reato[531; c.p. 150 ss.] ma dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione [530] o di non luogo a procedere [425, 469, 529, 531] con la formula prescritta.
 
Articolo 157 Codice Penale Prescrizione. Tempo necessario a prescrivere
 
La prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria.
 
Per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per il reato consumato o tentato [56], senza tener conto della diminuzione per le circostanze attenuanti e dell’aumento per le circostanze aggravanti, salvo che per le aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e per quelle ad effetto speciale, nel qual caso si tiene conto dell’aumento massimo di pena previsto per l’aggravante.
 
Non si applicano le disposizioni dell’articolo 69 e il tempo necessario a prescrivere è determinato a norma del secondo comma.
 
Quando per il reato la legge stabilisce congiuntamente o alternativamente la pena detentiva e la pena pecuniaria, per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo soltanto alla pena detentiva.
 
Quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria, si applica il termine di tre anni.
 
I termini di cui ai commi che precedono sono raddoppiati per i reati di cui agli articoli 449 e 589, secondo, terzo e quarto comma, nonché per i reati di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale.
 
La prescrizione è sempre espressamente rinunciabile dall’imputato.
 
La prescrizione non estingue i reati per i quali la legge prevede la pena dell’ergastolo, anche come effetto dell’applicazione di circostanze aggravanti. ""
 
Fonte sentenze-cassazione.com, qui:
 
 
Avvocato penalista - Il patteggiamento non è una dichiarazione di rinuncia alla prescrizione, atteso che l'Art. 157, comma 7, del Codice Penale richiede la rinuncia espressa e non la rinuncia tacita.   
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sabato 28 marzo 2015

Avvocato penalista - Nessuna legittimazione attiva in tema di sequestro può essere riconosciuta alle curatele fallimentari, atteso il disposto dell’Art. 240 della L. Fall.

Avvocato penalista - Nessuna legittimazione attiva in tema di sequestro può essere riconosciuta alle curatele fallimentari, atteso il disposto dell’Art. 240 della L. Fall.
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L'Art. 240 del Regio Decreto 16 marzo 1942, n°. 267, più noto come legge fallimentare, intitolato alla Costituzione di parte civile, prevede e stabilisce che:

Il curatore, il commissario giudiziale e il commissario liquidatore possono costituirsi parte civile nel procedimento penale per i reati preveduti nel presente titolo, anche contro il fallito.

I creditori possono costituirsi parte civile nel procedimento penale per bancarotta fraudolenta quando manca la costituzione del curatore, del commissario giudiziale o del commissario liquidatore o quando intendono far valere un titolo di azione propria personale.
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Avvocato penalista - Nessuna legittimazione attiva in tema di sequestro può essere riconosciuta alle curatele fallimentari, atteso il disposto dell’Art. 240 della L. Fall.
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"" Cassazione, fallimento, sequestro conservativo e revocatoria
 
Cassazione, fallimento, sequestro conservativo e revocatoria
 
Suprema Corte di Cassazione Quinta Sezione Penale
Sentenza del 20 giugno 2013 n. 27227
 
La Cassazione, con la sentenza che di seguito si riporta, ha trattato un interessante vicenda che riguarda il fallimento e le situazioni ad esso collegate e, con l’occasione, ha precisato che “nessuna legittimazione in tema di sequestro può essere riconosciuta alle curatele, anche perché l’art. 240 della L. Fall. nega alla curatela la legittimazione a costituirsi parte civile per reati diversi da quelli previsti dalla medesima legge.”
 
FATTO E DIRITTO
 
Con ordinanza 27.7.2012, il tribunale del riesame di Padova ha rigettato la richiesta di riesame avverso il decreto di sequestro conservativo, emesso il 6.7.2012, in accoglimento delle richieste formulate dalle parti civili INPS Padova , Fallimento D., Fallimento J., Fallimento E., Ministero delle Finanze, Agenzia delle Entrate, limitatamente ai beni di proprietà e di quelli riferibili all’indagato Z. W., in ordine ai reati ex artt. 416 e 640 co. 1 e 2, n. 1 cp, 1 d.lvo 211/94, 5 e 10 d.lvo 74/2000, ad integrazione del sequestro conservativo, disposto il 24.1.2012 e l’8.2.2012, dei beni di proprietà dell’indagato, a lui intestati.
 
Il difensore ha presentato ricorso peri seguenti motivi: 1. violazione dell’art. 316 cpp; il tribunale del riesame ha ritenuto legittimo il sequestro conservativo di beni appartenenti a terzi, non sulla base della disponibilità uti dominus, ma sulla base della loro riferibilità allo Z. W.

Anche aderendo alla tesi, secondo cui la misura cautelare può spingersi al di là della formale intestazione, non si può arrivare fino al più ampio concetto di riferibilità, previsto solo per il sequestro preventivo.

Comunque manca qualsiasi prova sulla natura artefatta o simulata della titolarità formale dei beni; 2. violazione dell’art. 316 cpp per carenza dei presupposti per la concessione del sequestro in favore delle parti civili; illegittima sovrapposizione e duplicazione del danno reclamato; assorbimento del medesimo e della conseguente misura cautelare in quello reclamato da INPS e Ministero delle Finanze: è noto che l’azione esercitata dalla curatela è volta alla soddisfazione e al reintegro dei creditori insinuati al passivo, con la conseguenza che il recupero delle somme ha destinazione obbligata a soggetti creditori.

Nel caso in esame qualsiasi somma recuperata dalla curatela andrebbe corrisposta a Stato ed INPS, che sono creditori privilegiati di primo grado ed hanno ottenuto sequestro conservativo in questo processo.

Pertanto nessuna legittimazione in tema di sequestro può essere riconosciuta alle curatele, anche perché l’art. 240 della L. Fall. nega alla curatela la legittimazione a costituirsi parte civile per reati diversi da quelli previsti dalla medesima legge.

3. violazione di legge in riferimento all’art. 316 cpp per insussistenza del periculum in mora: il tribunale ha richiamato il pericolo di dispersione dei beni dell’indagato, sebbene trattasi di beni di terzi e manchi qualsiasi possibilità per lo Z. W. di disporne; inoltre il PM e le parti civili nessun elemento hanno dedotto su tale presupposto.

Nell’interesse dell’INPS è stata depositata il 17.1.2013 memoria difensiva.

Il ricorso non merita accoglimento.

Secondo un pacifico orientamento interpretativo, la finalità dell’art. 316 c.p.p. consiste nell’immobilizzare il patrimonio del soggetto obbligato e attuare, così, la piena e concreta tutela del danneggiato dal reato per il soddisfacimento del suo credito risarcitorio, in attesa dell’esito dell’azione revocatoria.

È evidente, invero, che, se nel caso di specie si ritenesse non consentito il sequestro conservativo, l’eventuale esito positivo dell’azione revocatoria potrebbe essere del tutto inutile a fronte di un bene – che solo formalmente non è dell’imputato – non possa essere sottoposto a nessun vincolo.

Alla luce di quanto sopra appare, allora, consono il richiamo, effettuato dal tribunale di Padova, alla giurisprudenza di questa Corte, la quale ha affermato il principio che in tema di sequestro conservativo, nel concetto di beni mobili ed immobili dell’imputato contenuto nell’art. 316 c.p.p. non rileva la loro formale intestazione, ma che l’imputato ne abbia la disponibilità “uti dominus”, indipendentemente dalla titolarità apparente del diritto in capo a terzi (Sez. 6, Sentenza n. 21940 del 02/04/2003, rv. 226043; sez. 2 n. 44660 del 5.10.10, rv. 248942).

Va anche rilevato che gli atti di indagine hanno dimostrato che il ricorrente aveva, al momento dell’esecuzione del provvedimento cautelare, la disponibilità delle società a lui facenti sostanzialmente capo, in una posizione di controllo e di gestione.

Correttamente quindi è stato disposto il sequestro conservativo, in data 6.7.2012, in accoglimento delle istanze presentate da tutte le parti civili , con esatta indicazione dell’ammontare delle pretese risarcitorie.

In tal modo, il tribunale, verificato il requisito della proporzione tra crediti da tutelare e il valore dei beni sequestrandi. ha correttamente provveduto per scongiurare l’accertato pericolo della dispersione di questi ultimi, gravante su ciascuna delle parti civili, a prescindere da irrilevanti ipotesi di sovrapposizione, duplicazione, assorbimento dei darmi di ciascuna delle parti civili.

Va anche rilevato che, secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale, la curatela fallimentare e legittimata a costituirsi parte civile contro il fallito nel procedimento penale anche in tema di reati tributari, con estensione della legittimazione del curatore, prevista dall’art. 240 L. Fall. (sez. 3, n. 14729 del 6.3.08, rv. 239973).

Ne consegue che va riconosciuto al danno reclamato dalle curatele, costituite parti civili, la piena autonomia, rispetto a quello reclamato dall’INPS e dal Ministero delle Finanze, essendo riconosciuto espressamente il diritto di costituirsi parte civile.

Solo all’esito dell’istruttoria dibattimentale , sarà scandita l’esatta quantificazione del danno subito dalle curatele, nella comparazione con le altre pretese risarcitorie.

Il ricorso va rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese sostenute in questo grado di giudizio in favore della parte civile, liquidate in € 2.700,00, oltre accessori come per legge.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese sostenute in questo grado di giudizio in favore della parte civile, liquidate in € 2.700.00, oltre accessori come per legge. Roma 4.2.2013 ""

Fonte sentenze-cassazione.com, qui:

http://www.sentenze-cassazione.com/fallimento-sequestro-conservativo-revocatoria-cassazione/
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Avvocato penalista - Nessuna legittimazione attiva in tema di sequestro può essere riconosciuta alle curatele fallimentari, atteso il disposto dell’Art. 240 della L. Fall.
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venerdì 27 marzo 2015

Avvocato penalista - E' Vilipendio alla nazione italiana, Art. 291 del Codice Penale, l’offesa ingiuriosa verso il/lo o disprezzante del prestigio o dell’onore nazionale.

Avvocato penalista - E' Vilipendio alla nazione italiana, Art. 291 del Codice Penale, l’offesa ingiuriosa verso il/lo o disprezzante del prestigio o dell’onore nazionale.
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Avvocato penalista - E' Vilipendio alla nazione italiana, Art. 291 del Codice Penale, l’offesa ingiuriosa verso il/lo o disprezzante del prestigio o dell’onore nazionale.
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"" Cassazione, è vilipendio insultare la Nazione anche se solo per sfogarsi

Cassazione, è vilipendio insultare la Nazione anche se solo per sfogarsi

Suprema Corte di Cassazione Prima Sezione Penale
Sentenza n. 28730/2013

La Nazione non si insulta. Lo ha detto la Cassazione con la sentenza n. 28730 condannando un 71enne per aver pronunciato una frase che offendeva il Bel Paese.

Per i giudici della Cassazione, sfogarsi in pubblico offendendo la Nazione è “vilipendio” passibile di multa e, pertanto, ha confermato definitivamente la condanna di un anziano uomo della provincia di Campobasso al pagamento di una multa di 1000 euro perchè colpevole di essersi sfogato davanti ai Carabinieri di Montagnano e aver detto in quell’occasione, che “L’Italia è un Paese di M…“

I Carabinieri nel 2005 avevano fermato l’uomo per contestargli il funzionamento di un solo faro ma l’uomo, senza troppi giri di parole e in maniera abbastanza colorita “consigliava” ai militari di andare ad arrestare i “tossici” invece di pensare al faro della sua auto.

L’uomo era stato condannato dai giudici territoriali per vilipendio alla nazione (e non anche per vilipendio nei confronti dell’Arma).

La Cassazione che ha esaminato la vicenda ha bocciato la tesi difensiva sul “diritto alla libera manifestazione di pensiero” ma anche a quella della pubblica accusa del Palazzaccio che inquadrava la vicenda come un semplice sfogo e chiedeva l’assoluzione dell’anziano signore.

Gli ermellini della prima sezione hanno dunque confermato la decisione dei giudici della Corte d’Appello di Campobasso respingendo il ricorso dell’uomo poichè “basta l’offesa alla nazione, cioe’ una espressione di ingiuria o disprezzo che leda il prestigio o l’onore della collettività nazionale, a prescindere dai veri sentimenti nutriti” da colui che si sfoga, osservando che “l’elemento psicologico consiste nel dolo generico, ossia nella coscienza e volonta’ di ledere il prestigio e l’onore dell’intera nazione.“

Articolo 291 Codice Penale Vilipendio alla nazione italiana.

Chiunque pubblicamente [266 4] vilipende la nazione italiana è punito con la multa da euro 1.000 a euro 5.000.

In conclusione, secondo i Supremi giudici «sia pure nel contesto di un’accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un’autovettura con un solo faro funzionante, integra il delitto di vilipendio previsto dall’articolo 291 c.p., sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l’onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall’autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l’agente a compiere l’atto di vilipendio» ""

Fonte sentenze-cassazione.com, qui:

http://www.sentenze-cassazione.com/cassazione-vilipendio-nazione-sfogo/
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Avvocato penalista - E' Vilipendio alla nazione italiana, Art. 291 del Codice Penale, l’offesa ingiuriosa verso il/lo o disprezzante del prestigio o dell’onore nazionale.
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giovedì 26 marzo 2015

Avvocato penalista - Le offese in scritti o in discorsi difensivi dinanzi all'autorità giudiziaria non sono punibili solo se sono relative all’oggetto della contesa.

Avvocato penalista - Le offese in scritti o in discorsi difensivi dinanzi all'autorità giudiziaria non sono punibili solo se sono relative all’oggetto della contesa.
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Avvocato penalista - Le offese in scritti o in discorsi difensivi dinanzi all'autorità giudiziaria non sono punibili solo se sono relative all’oggetto della contesa.
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"" Cassazione, scriminante del diritto di difesa

Cassazione, scriminante del diritto di difesa art. 598 c.p.

Suprema Corte di Cassazione
Terza Sezione Civile – Sentenza del 21 Maggio 2013, n. 12402

La Cassazione ha affrontato il tema della scriminante di cui all’articolo 598 c.p. “per offese in scritti o discorsi pronunciati dinanzi alla autorità giudiziaria”, che permette alle parti la massima libertà nell’esercizio del diritto di difesa.

Gli ermellini hanno chiarito che l’esimente di cui sopra trova piena applicazione se le offese sono relative all’oggetto della controversia e, sempre che siano funzionali per le argomentazioni che sostengono la tesi prospettata.

Articolo 598 Codice Penale Offese in scritti e discorsi pronunciati dinanzi alle Autorità giudiziarie o amministrative.

Offese in scritti e discorsi pronunciati dinnanzi alle Autorità giudiziarie o amministrative.

Non sono punibili le offese contenute negli scritti presentati o nei discorsi pronunciati dalle parti o dai loro patrocinatori nei procedimenti dinnanzi all’Autorità giudiziaria, ovvero dinnanzi a un’autorità amministrativa, quando le offese concernono l’oggetto della causa o del ricorso amministrativo.

Il giudice, pronunciando nella causa, può, oltre ai provvedimenti disciplinari, ordinare la soppressione o la cancellazione, in tutto o in parte, delle scritture offensive, e assegnare alla persona offesa una somma a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale.

Qualora si tratti di scritture per le quali la soppressione o cancellazione non possa eseguirsi, è fatta sulle medesime annotazione della sentenza. ""

Fonte sentenze-cassazione.com, qui:

http://www.sentenze-cassazione.com/cassazione-scriminante-del-diritto-di-difesa/
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Avvocato penalista - Le offese in scritti o in discorsi difensivi dinanzi all'autorità giudiziaria non sono punibili solo se sono relative all’oggetto della contesa.
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mercoledì 25 marzo 2015

Avvocato penalista - Il reato di maltrattamenti in famiglia, Art. 572 del Codice Penale, si integra anche nei casi di convivenza, purché la convivenza sia stabile e non soltanto occasionale.

Avvocato penalista - Il reato di maltrattamenti in famiglia, Art. 572 del Codice Penale, si integra anche nei casi di convivenza, purché la convivenza sia stabile e non soltanto occasionale.
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Avvocato penalista - Il reato di maltrattamenti in famiglia, Art. 572 del Codice Penale, si integra anche nei casi di convivenza, purché la convivenza sia stabile e non soltanto occasionale.
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"" Cassazione, maltrattamenti in famiglia e conviventi

Cassazione, maltrattamenti in famiglia e conviventi

Suprema Corte di Cassazione Sesta Sezione Penale
Sentenza del 27 Maggio 2013, n. 22915

Con la sentenza di seguito riportata la Cassazione affronta il tema dei maltrattamenti in famiglia in relazione con le persone che convivono sotto lo stesso tetto.

Sull’argomento la Corte ha avuto modo di esprimersi in diverse occasioni e, anche in questo caso, il principio emerso è che soggetto passivo del reato non è soltanto “una persona della famiglia”, ma “una persona della famiglia o comunque convivente“.

Con la novella 1 ottobre 2012 n. 172 in cui si è parzialmente riformato l’art. 572 c.p., da “maltrattamenti in famiglia” in “maltrattamenti contro familiari e conviventi“, il Legislatore ha pertanto voluto assicurare piena tutela penale verso tutti i componenti del nucleo familiare sia con riferimento alla famiglia legale, ma anche ai membri delle unioni di fatto fondate sulla convivenza.

Sesta Sezione Penale – Sentenza del 27 Maggio 2013, n. 22915.

…omissis…

Il ricorrente contesta la legittimità della condanna per due motivi:

1) la relazione tra imputato e vittima non sarebbe assimilabile a una convivenza more uxorio;

2) le testimonianze a carico sarebbero state erroneamente valutate in senso colpevolistico;

Sotto il primo profilo, pregiudiziale rispetto al secondo, è opportuno rammentare che l’art. 572 c.p., nel perseguire la condotta di colui che “maltratta una persona della famiglia”, considera famiglia – per giurisprudenza consolidata – non soltanto quella legittima fondata sul matrimonio, ma anche quella di fatto, connotata da un rapporto tendenzialmente stabile fondato su legami di reciproca assistenza e protezione.

“Agli effetti dell’art. 572 c.p. – è stato affermato a partire da Cass., Sez. 2, 26.5.1966, Palombo, rv 101563 – deve considerarsi famiglia ogni consorzio di persone tra le quali, per intime relazioni e consuetudini di vita, siano sorti legami di reciproca assistenza e protezione: anche il legame di puro fatto stabilito tra un uomo e una donna vale pertanto a costituire una famiglia in questo senso, quando risulti da una comunanza di vita e di affetti analoga a quella che si ha nel matrimonio”.

Più precisamente si è affermato che sono da considerare persone della famiglia, anche i componenti della famiglia di fatto, fondata sulla reciproca volontà di vivere insieme, di generare figli, di avere beni in comune, di dare vita a un nucleo stabile e duraturo (v. ex plurimis, Sez. 6, 24.01.2007 n. 21239, Gatto, rv 236757; idem, 29.01.2008 n. 20647, rv 239726).

E proprio in riferimento alla famiglia di fatto è stato affermato che la convivenza more uxorio realizza una serie di relazioni di stima, di affetto e di fiducia, che corrispondono pienamente a quelle che caratterizzano la famiglia legittima.

In alcune sentenze si è aggiunto che, per la configurabilità del reato previsto dall’art. 572 c.p., non sarebbe necessario il requisito della convivenza o coabitazione (v. Cass., Sez. 3, 3.10.1997, rv. 208444).

A questo proposito, premessa la considerazione che la convivenza è, secondo l’id quod plerumque accidit, il fenomeno che rivela fisicamente il rapporto di solidarietà e protezione che lega due o più persone che formano un consorzio familiare, va precisato che la predetta affermazione vale nel caso di separazione (consensuale o giudiziale) dei coniugi, perchè, nonostante la cessazione della convivenza, persistono gli obblighi giuridici, sia pure attenuati, di assistenza materiale e morale nascenti dal matrimonio.

Non può valere, invece, nell’ipotesi della famiglia di fatto, perchè la cessazione della convivenza rende manifesta l’avvenuta estinzione dell’affectio che reggeva quella unione, a meno che altri elementi rivelino la prosecuzione del rapporto di reciproca assistenza che costituisce il fondamento volontario della famiglia di fatto.

Il legislatore, facendo tesoro dell’approdo cui è pervenuta la consolidata giurisprudenza di legittimità, con la novella 1 ottobre 2012 n. 172 ha parzialmente riformato l’art. 572 c.p., cambiando la rubrica da “maltrattamenti in famiglia” in “maltrattamenti contro familiari e conviventi” e precisando che soggetto passivo del reato non è soltanto “una persona della famiglia”, ma “una persona della famiglia o comunque convivente”.

In altre parole il legislatore, riconosciuto il valore sociale della convivenza come modello idoneo a costituire una di quelle formazioni sociali che l’ordinamento costituzionale si impegna a riconoscere e garantire (v. art. 2 Cost.), ha inteso assicurare tutela penale non solo ai componenti della famiglia legale, ma anche ai membri delle unioni di fatto fondate sulla convivenza.

Passando all’esame del caso concreto, si osserva che la sentenza impugnata, muovendo dal rilievo che “tra l’ I. e la V. v’era una relazione sentimentale protrattasi per parecchi anni (dal 2004 al 2009) sebbene con fasi alterne e dalla quale sono nati tre figli, che in diverse occasioni la V. si è assentata da casa per vivere con l’ I.”, ha ritenuto provata l’esistenza di un rapporto non meramente occasionale, ma abituale, “tale da far sorgere rapporti di umana solidarietà e doveri di assistenza morale e materiale” e, quindi, ha concluso per l’assumibilità del fatto nella fattispecie di reato prevista dall’art. 572 c.p..

Senonché la conclusione raggiunta non resiste alle censure proposte dal ricorrente, perchè, da un lato, non si attiene alla nozione di persona della famiglia secondo l’accezione sopra delineata e, dall’altro, ignora con motivazione apodittica i rilievi formulati in fatto dal ricorrente.

Sotto il primo profilo, in base all’ermeneusi sopra svolta, si ricorda che, in difetto di convivenza, il rapporto familiare di fatto che costituisce il presupposto del reato contestato, va desunto dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà e assistenza.

Sotto il secondo profilo, si osserva che l’asserito rapporto di reciproca assistenza sembrerebbe contraddetto dalle seguenti circostanze:

- che la relazione sentimentale, durata secondo il giudice d’appello per un periodo di sei anni, sarebbe cominciata con una convivenza di qualche mese presso la casa dei genitori dell’imputato e sarebbe poi proseguita con una frequentazione saltuaria e intermittente, posto che la vittima, ogni volta che si allontanava da casa per incontrare l’imputato, vi faceva ritorno coperta di lividi per le percosse ricevute;

- che la nascita dei tre figli parrebbe essere una conseguenza non voluta della relazione piuttosto che l’effetto di un progetto mirato a generare, allevare ed educare la prole, posto che, del primo figlio, a causa dell’incuria dei genitori, è stato dichiarato lo stato di adottabilità e, della sorte degli altri, non si ha notizia alcuna;

- che tanto l’imputato quanto la vittima sono descritti come soggetti immaturi, affetti da disturbi della personalità che ne compromettono la funzionalità in maniera significativa, privi di occupazione lavorativa, incapaci di condurre una vita responsabile.

La sentenza deve dunque essere annullata a causa dei rilevati vizi di violazione della norma penale e di motivazione soltanto apparente, e il giudice di rinvio, attenendosi all’interpretazione dell’art. 572 c.p., sopra specificata, dovrà riesaminare il fatto per accertare se la relazione intercorsa tra l’imputato e V.I., per il carattere di precarietà o stabilità e per le finalità che inducevano i due a frequentarsi, fosse tale da realizzare una famiglia di fatto.

In caso di risposta positiva, procederà poi a verificare se l’accusa di avere maltrattato la compagna con percosse, ingiurie e minacce sia fondata.

Si osserva infine che la richiesta di declaratoria di estinzione del reato per prescrizione è allo stato infondata, perchè, stando all’imputazione e salvo diverso accertamento del giudice di merito, la permanenza del reato è durata fino al termine dell’anno 2006.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte d’appello di Reggio Calabria.

Così deciso in Roma, il 7 maggio 2013.

Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2013.

Fonte sentenze-cassazione.com, qui:

http://www.sentenze-cassazione.com/cassazione-maltrattamenti-in-famiglia-e-conviventi/
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martedì 24 marzo 2015

Avvocato penalista - Il certificato medico falso non è idoneo per eludere l'esecuzione di una misura cautelare.

Avvocato penalista - Il certificato medico falso non è idoneo per eludere l'esecuzione di una misura cautelare.
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Avvocato penalista - Il certificato medico falso non è idoneo per eludere l'esecuzione di una misura cautelare.
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"" Certificato medico falso per giustificare l’inadempimento della misura cautelare, l’analisi della Cassazione

Suprema Corte di Cassazione Penale Quinta Sezione
Sentenza del 25 luglio 2013, n. 32446

La sentenza che di seguito si riporta “investe l’individuazione della natura del falso certificato medico formato dall’imputato per giustificare la propria mancata presentazione alla PG in adempimento delle prescrizioni inerenti alla relativa misura cautelare.

Si tratta di certificato apparentemente emesso da un medico in servizio presso l’ospedale Civico di XXXXXXX con impronta del timbro del nosocomio contraffatta“

Ritenuto in fatto

1. M..M. è stato ritenuto responsabile, con sentenza del Tribunale di Palermo del 29-9-2009, confermata dalla corte d’appello territoriale in data 13-7-2012, del reato ex artt. 476 e 482 cod. pen. per aver formato un falso certificato medico apparentemente rilasciato da un medico in servizio presso l’ospedale Civico di …, attestante che alla data del (OMISSIS) egli era affetto da sindrome influenzale con cefalea e febbre.

Certificato da lui esibito il giorno seguente per giustificare il fatto di non aver ottemperato alla misura cautelare dell’obbligo di presentazione alla PG.

2. Tramite il difensore avv. M. Genovese, l’imputato ha proposto ricorso per cassazione deducendo preliminarmente due questioni in rito.

3. La prima: nullità della notifica della citazione per il giudizio di appello che avrebbe dovuto essere effettuata al domicilio ex lege, presso il Servizio Centrale di Protezione, essendo il M. un collaboratore di giustizia.

4. La seconda: nullità della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari e della citazione per il giudizio di primo grado, effettuata, in violazione dell’art. 156 cod. proc. pen., senza l’osservanza delle modalità previste per l’imputato detenuto, ma al domicilio eletto e, poi, stante l’esito negativo, al difensore.

5. Con il terzo motivo si deduceva violazione degli artt. 476 e 482 cod. pen. in quanto la condotta integrava il reato di cui all’art. 477 stesso codice trattandosi di falsificazione di certificato medico.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è nel complesso da disattendere.

2. Non sussiste nullità della notifica della citazione per il giudizio di appello per mancata effettuazione della stessa, essendo il M. un collaboratore di giustizia, presso il Servizio Centrale di Protezione.

Al riguardo la corte territoriale ha già puntualmente e correttamente osservato che il prevenuto, detenuto per altra causa, aveva rinunciato a comparire: segno evidente che la notifica aveva raggiunto il suo scopo, con conseguente sanatoria di eventuali irregolarità e comunque difetto di interesse a farle valere.

3. Del pari priva di significativa consistenza è la questione di nullità della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari e della citazione per il giudizio di primo grado.

Mentre, quanto a quest’ultima, è doveroso il rilievo che M. era comunque comparso al processo essendo stato tradotto, con conseguenti sanatoria di eventuale nullità ed insussistenza di violazione del diritto di difesa, quanto alla prima i giudici di merito hanno osservato, a contrastare analoga censura già proposta, che non era risultato lo stato di detenzione, donde la ritualità della notifica dapprima tentata al domicilio eletto e, dato l’esito negativo, eseguita di poi al difensore.

Assunto pienamente in linea con consolidato indirizzo di questa corte a tenore del quale la detenzione per altra causa, sopravvenuta alla dichiarazione o all’elezione di domicilio, non impone di eseguire le successive notificazioni presso il luogo di detenzione ove l’autorità giudiziaria non sia stata portata a conoscenza di tale stato (Cass. 31490/2012, 32588/2010).

4. La doglianza di merito prospettata con il terzo motivo, inerente alla qualificazione giuridica del fatto – che, secondo il ricorrente, integrerebbe falsità materiale in certificato anziché in atto pubblico - è infondata.

5. Essa investe l’individuazione della natura del falso certificato medico formato dall’imputato per giustificare la propria mancata presentazione alla PG in adempimento delle prescrizioni inerenti alla relativa misura cautelare.

Si tratta di certificato apparentemente emesso da un medico in servizio presso l’ospedale Civico di XXXXXXX con impronta del timbro del nosocomio contraffatta, attestante che alla data del (OMISSIS) M. era affetto da sindrome influenzale con cefalea e febbre.

6. Ciò premesso, la tesi del ricorrente sconta l’errore di ritenere che tale tipo di atto, comunemente denominato certificato, rientri nella casistica degli atti previsti dall’art. 477 cod. pen., trascurando che la natura certificativa, che giustifica il più mite trattamento sanzionatorio, è propria, secondo consolidato indirizzo di legittimità, dei documenti a carattere derivato o secondario, che contengono cioè dichiarazioni di scienza, vale a dire attestazione di fatti, ovvero di dati, noti al pubblico ufficiale per la loro provenienza da altri documenti ufficiali (Cass. 31533/2004).

Il certificato amministrativo, previsto degli artt. 477 e 480 cod. pen. è dunque caratterizzato, secondo tale indirizzo, dalla mera attestazione di verità o di scienza priva di contenuto negoziale e svincolata dal compimento di attività direttamente effettuate o percepite dal pubblico ufficiale, relativa a fatti di cui è stata già altrimenti accertata l’esistenza (Cass. 3161/1984).

7. Ineccepibilmente, dunque, i giudici di merito hanno nella specie ritenuto corretta la qualificazione del fatto ex artt. 476-482 cod. pen. uniformandosi all’altro, del pari consolidato, orientamento di questa corte che ravvisa invece i reati previsti negli artt. 476 e 479 cod. pen. in caso di falsità di atti caratterizzati dalla produttività di effetti costitutivi, traslativi, dispositivi, modificativi o estintivi rispetto a situazioni giuridiche soggettive di rilevanza pubblicistica, nonché, in via congiuntiva o anche solo alternativa, dalla documentazione di una attività compiuta dal pubblico ufficiale che lo redige e di fatti avvenuti alla sua presenza o da lui percepiti (Cass. 3161/1984).

8. Poiché il certificato medico interamente formato dal prevenuto reca la falsa attestazione diagnostica di una situazione asseritamente caduta nella sfera conoscitiva del suo autore, esso, per quanto sopra, è stato correttamente ritenuto rientrante nella categoria degli atti pubblici di fede privilegiata assumendo la diagnosi ivi formulata rilievo giuridico anche esterno alla mera indicazione sanitaria (Cass. 12401/2010, 7921/2007).

9. Né conduce a diverse conclusioni l’indirizzo giurisprudenziale evocato dal ricorrente (Cass. 33648/2005) relativo a caso solo apparentemente omogeneo al presente, nel quale era invece contestato ab origine il reato di cui all’art. 477 cod. pen. e la pronuncia di questa corte era intesa a contestare la tesi difensiva per la quale avrebbe integrato scrittura privata il certificato apparentemente rilasciato da un medico convenzionato con il servizio sanitario nazionale, contenente false attestazioni sullo stato di salute di un imputato al fine di ottenere il rinvio di un processo.

10. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. ""

Fonte sentenze-cassazione.com, qui:

http://www.sentenze-cassazione.com/certificato-medico-falso-misura-cautelare/
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Avvocato penalista - Il certificato medico falso non è idoneo per eludere l'esecuzione di una misura cautelare.
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lunedì 23 marzo 2015

Avvocato penalista - Il delitto di violenza sessuale su minore si integra anche senza il contatto fisico, se l'azione del reo è stata invasiva, costrittiva o idonea a carpire il consenso.

Avvocato penalista - Il delitto di violenza sessuale su minore si integra anche senza il contatto fisico, se l'azione del reo è stata invasiva, costrittiva o idonea a carpire il consenso.
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Avvocato penalista - Il delitto di violenza sessuale su minore si integra anche senza il contatto fisico, se l'azione del reo è stata invasiva, costrittiva o idonea a carpire il consenso.
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"" Violenza sessuale su minore anche senza contatto fisico

Violenza sessuale su minore anche senza contatto fisico

Suprema Corte di Cassazione Penale – Sezione IV
Sentenza 22 luglio 2013 (ud. 16 aprile 2013), n. 31290
Presidente Bianchi, Relatore Izzo

La Cassazione ha affrontato un tema molto delicato che riguarda il reato di cui all’art. 609 quater c.p. atti sessuali con minori.

Nella fattispecie, gli ermellini, analizzavano un caso che già era stato sottoposto alla loro attenzione; infatti, il ricorso era stato presentato a seguito della nuova decisione presa dalla Corte territoriale che era stata nuovamente incaricata di trattare il caso dopo un precedente annullamento con rinvio da parte di Piazza Cavour.

In appello veniva confermata la condanna di primo grado per le condotte dell’imputato che, secondo i giudici, erano tali da compromettere lo sviluppo psicofisico dei minori e, pertanto, non potevano essere qualificate come “semplici” molestie, ma, anzi, erano idonei a configurare il reato di violenza sessuale anche se non vi era stato alcun contatto fisico.

I giudici d’appello sono giunti a questa decisione anche perchè hanno preso in considerazione tutta la recente giurisprudenza sull’argomento, tendente sempre di più a tutelare i minori da ogni tipo di abuso.

L’imputato ha proposto ricorso per Cassazione perchè lamentava una erronea applicazione della legge proprio perchè, a suo dire, non era stata provata la condotta lesiva basandosi sul fatto che tra lui e la vittima non vi era stato alcun contatto.

Non c’è stato nulla da fare.

La Cassazione ha rigettato il ricorso perché, stando alla recente giurisprudenza di legittimità che ha più volte trattato l’argomento specie nei chiarimenti delle differenze sostanziali tra il delitto di violenza sessuale e la contravvenzione di molestie, in cui si precisa che la nozione di “atti sessuali” di cui all’articolo 609 bis c.p., intende sia la congiunzione carnale che gli atti di libidine che invece precedentemente venivano considerati e disciplinati in maniera distinta e separata, adesso non può non essere considerata come che ci sia stato un coinvolgimento della corporeità sessuale della persona offesa (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 2941 del 28/09/1999 Cc. (dep. 03/11/1999), Rv. 215100).

In poche parole, dalle argomentazioni esposte dalla Cassazione si deduce che non possono qualificarsi come “atti sessuali” tutti quei comportamenti che, pur essendo espressivi di concupiscenza sessuale, siano però capaci di interferire nella sfera della sessualità fisica della vittima (cfr. anche, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 23094 del 11/05/2011 Ud. (dep. 08/06/2011), Rv. 250654; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 7365 del 18/01/2012 Ud. (dep. 24/02/2012), Rv. 252132).

Piazza Cavour precisa che nel caso di specie, i delitti per i quali l’imputato è stato condannato proprio perché non sono stati consumati, sono rimasti al livello di tentativo, ma ciò non toglie che siano idonei a invadere la sfera corporea della vittima ed è proprio questo che era tenuta a valutare la Corte che ha quindi giustamente condannato l’imputato prescindendo dalla prova relativa al fatto che la corporeità tra questo e la vittima ci sia stata e no.

In base a questo ragionamento la Cassazione ha dunque affermato che il comportamento tenuto dall’imputato nei confronti della vittima, per le frasi pronunciate e per gli inviti a consumare gli atti sessuali, presentava una invasività tale da essere stata ritenuta dal giudice di merito, con valutazione ex ante, idonea alla costrizione ovvero a carpire il consenso agli atti sessuali invocati.

Articolo 609 bis Codice Penale Violenza sessuale

Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni.

Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali:

1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;

2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.

Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi.

Articolo 609 quater Codice Penale Atti sessuali con minorenne

Soggiace alla pena stabilita dall’art. 609 bis chiunque, al di fuori delle ipotesi previste in detto articolo, compie atti sessuali con persona che, al momento del fatto:

1) non ha compiuto gli anni quattordici;

2) non ha compiuto gli anni sedici, quando il colpevole sia l’ascendente, il genitore anche adottivo, il tutore, ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia, il minore è affidato o che abbia, con quest’ultimo, una relazione di convivenza.

Non è punibile il minorenne che, al di fuori delle ipotesi previste nell’articolo 609 bis, compie atti sessuali con un minorenne che abbia compiuto gli anni tredici, se la differenza di età tra i soggetti non è superiore a tre anni.

Nei casi di minore gravità la pena è diminuita fino a due terzi.

Si applica la pena di cui all’articolo 609 ter, secondo comma, se la persona offesa non ha compiuto gli anni dieci. ""

Fonte sentenze-cassazione.com, qui:

http://www.sentenze-cassazione.com/cassazione-sentenza-violenza-sessuale-su-minore/
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domenica 22 marzo 2015

Avvocato penalista - La concussione, per costrizione o per induzione, è l'estorsione commessa dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di un pubblico servizio.

Avvocato penalista - La concussione, per costrizione o per induzione, è l'estorsione commessa dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di un pubblico servizio.
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Avvocato penalista - La concussione, per costrizione o per induzione, è l'estorsione commessa dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di un pubblico servizio. 
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"" Concussione per costrizione, ecco cosa dice la Cassazione

Concussione per costrizione, ecco cosa dice la Cassazione

Suprema Corte di Cassazione Penale Sesta Sezione
Sentenza 23 maggio – 9 luglio 2013, n. 29338

Secondo quanto emerge dalla sentenza in esame, la Cassazione ha affermato che soltanto in presenza di un danno ingiusto può parlarsi di concussione per costrizione.

Articolo 317 Codice Penale Concussione

Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe o induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o ad un terzo, denaro od altra utilità, è punito con la reclusione da quattro a dodici anni [32quater]

In poche parole, resta del tutto irrilevante la pressione esercitata per costringere se tale costrizione non si possa trasformare in un danno ingiusto.

Nel caso di specie, il funzionario di un ufficio comunale era ritenuto responsabile per il suddetto delitto poichè in cambio di una concessione, imponeva ad una società una azienda “amica” quale soggetto appaltatore stabilendone anche le condizioni economiche etc.

L’imputato avrebbe voluto che la condotta fosse qualificata come concussione per induzione ma per la Cassazione ha chiarito che per la configurazione del reato di cui all’art. 317 c.p. ciò che diventa realmente rilevante non è tanto l’intensità della pressione esercitata dal pubblico ufficiale al cittadino ma il tipo di male prospettato.

Nella fattispecie analizzata dagli ermellini l’evidenza della concussione per costrizione si manifesta perché “la concessione avrebbe dovuto essere rilasciata e consegnata nei contesti formali consueti e fisiologici, mentre la subordinazione di tale rilascio alla stipula di un contratto di appalto per l’esecuzione del lavori oggetto della concessione con un soggetto non scelto dal committente ma imposto dal pubblico ufficiale (ed alle condizioni economiche poste dall’appaltatore) ha costituito all’evidenza la prospettazione di un oggettivo danno ingiusto, idoneo a condizionare la vittima, come effettivamente giudicato da entrambi i Giudici dei merito”.

Sempre secondo quanto affermano i togati di Piazza Cavour tale male “può essere caratterizzato da una ingiustizia oggettiva: è il caso del male comunque non dovuto, del danno ingiustificato; ovvero può essere caratterizzato da una ingiustizia solo percepita soggettivamente è il caso delle conseguenze negative tuttavia conformi a previsioni di legge, che vengano prospettate strumentalmente e con abuso della posizione dominante”.

Mentre, nel primo caso, la prospettazione del danno oggettivo e ingiusto, “mette sostanzialmente la vittima con le spalle ai muro, integrando pertanto un abuso costrittivo, nel secondo la non oggettiva ingiustizia del danno e, conseguentemente, la partecipazione del destinatario della sollecitazione pure particolarmente invasiva ad un vantaggio personale, lascia al destinatario spazi di autonoma possibilità di determinazione orientati anche da una valutazione del rapporto costo/beneficio personale.

Rapporto che, per l’assoluta ingiustizia del danno, è insussistente nel primo caso, nel quale il concusso non ha alcuna ragione di dare o promettere alcunché al pubblico ufficiale, o ad altri da lui indicato, che non sia la costrizione di quello nei suoi confronti”. ""

Fonte sentenze-cassazione.com, qui:

http://www.sentenze-cassazione.com/cassazione-concussione-per-costrizione/
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Avvocato penalista - La concussione, per costrizione o per induzione, è l'estorsione commessa dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di un pubblico servizio. 
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sabato 21 marzo 2015

Avvocato penalista - Il reato di Diffamazione tramite internet si intende consumato quando il collegamento web è attivato.

Avvocato penalista - Il reato di Diffamazione tramite internet si intende consumato quando il collegamento web è attivato.
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Avvocato penalista - Il reato di Diffamazione tramite internet si intende consumato quando il collegamento web è attivato.
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"" La Cassazione e la diffamazione a mezzo internet

La Cassazione e la diffamazione a mezzo internet

Suprema Corte di Cassazione Penale Quinta Sezione
Sentenza n. 32444 del 25 luglio 2013

Con la sentenza che di seguito si riporta la Cassazione “in tema di consumazione del reato di diffamazione tramite Internet si è posto in evidenza come esso debba intendersi consumata nei momento in cui il collegamento web sia attivato, e la dimostrazione del contrario deve essere data dall’interessato, tenuto conto dell’ordinario ricorso, nella pratica web, a comunicazioni aperte all’accesso di un numero indeterminato di persone o comunque destinate, per la loro stessa natura, a tal genere di immediata diffusione.“

Questo argomento è stato trattato diverse volte dalla Cassazione anche se in ogni sentenza gli ermellini hanno introdotto sempre qualche novità interpretativa della succitata fattispecie di reato

I reati del web prendono sempre più piede nelle aule di Tribunale e, pertanto, in alcune situazioni l’intervento decisivo della Cassazione si rende proprio necessario.

Nel caso di specie, Piazza Cavour, oltre a fare un’attenta analisi dei fatti ha spiegato in maniera chiara e dettagliata la consumazione del reato di diffamazione a mezzo internet e di tutte le situazioni ad esso connesse. ""

Fonte sentenze-cassazione.com, qui:

http://www.sentenze-cassazione.com/diffamazione-a-mezzo-internet/
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Avvocato penalista - Il reato di Diffamazione tramite internet si intende consumato quando il collegamento web è attivato.
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venerdì 20 marzo 2015

Avvocato penalista - Nel reato di Falsità in scrittura privata, Art. 485 del Codice Penale, il dolo specifico è dato dal fine di trarre un vantaggio di qualsiasi natura, legittimo od illegittimo che sia.

Avvocato penalista - Nel reato di Falsità in scrittura privata, Art. 485 del Codice Penale, il dolo specifico è dato dal fine di trarre un vantaggio di qualsiasi natura, legittimo od illegittimo che sia.
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Avvocato penalista - Nel reato di Falsità in scrittura privata, Art. 485 del Codice Penale, il dolo specifico è dato dal fine di trarre un vantaggio di qualsiasi natura, legittimo od illegittimo che sia.
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"" Falso in scrittura privata la decisione della Cassazione
 
Falso in scrittura privata la decisione della Cassazione
 
Suprema Corte di Cassazione Penale Quinta Sezione
Sentenza 27 agosto 2013 n. 35543
 
Con la sentenza del 27 agosto 2013 n. 35543 la Cassazione ha esaminato il reato di cui all’articolo 485 c.p.
 
Articolo 485 Codice Penale Falsità in scrittura privata
 
Chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, forma, in tutto o in parte, una scrittura privata falsa, o altera una scrittura privata vera, è punito, qualora ne faccia uso o lasci che altri ne faccia uso, con la reclusione da sei mesi a tre anni [490].
 
Si considerano alterazioni anche le aggiunte falsamente apposte a una scrittura vera, dopo che questa fu definitivamente formata [491, 493 bis].
 
Gli ermellini hanno esaminato la situazione concreta da ogni punto di vista al fine di chiarire in maniera dettagliata tutte le circostanze che concorrono alla costituzione della fattispecie descritta nel codice penale valutando nel complesso sia tutte le situazioni rilevanti sul piano oggettivo come quello soggettivo, in particolare il rapporto esistente tra chi commette il reato e chi lo subisce.
 
Secondo quanto si legge nella sentenza “ai fini della sussistenza del reato di falso in scrittura privata (art. 485 cod. pen.), il consenso o acquiescenza della persona di cui sia falsificata la firma, non svolge alcun rilievo, in quanto la tutela penale ha per oggetto non solo l’interesse della persona offesa, apparente firmataria del documento, ma anche la fede pubblica, la quale è compromessa nel momento in cui l’agente faccia uso della scrittura contraffatta per procurare a sé un vantaggio o per arrecare ad altri un danno; pertanto anche l’erroneo convincimento sull’effetto scriminante del consenso costituisce una inescusabile ignoranza della legge penale; sul piano soggettivo, nel delitto in questione, per l’integrazione del dolo specifico non occorre il perseguimento di finalità illecite, poiché l’oggetto di esso è costituito dal fine di trarre un vantaggio di qualsiasi natura, legittimo od illegittimo”. ""
 
Fonte sentenze-cassazione.com, qui:
 
 
Avvocato penalista - Nel reato di Falsità in scrittura privata, Art. 485 del Codice Penale, il dolo specifico è dato dal fine di trarre un vantaggio di qualsiasi natura, legittimo od illegittimo che sia.
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giovedì 19 marzo 2015

Avvocato penalista - Ai nonni è dovuto il risarcimento dei danni morali o non patrimoniali anche se non convivono coi nipoti rimasti vittime di fatti reato.


Avvocato penalista - Ai nonni è dovuto il risarcimento dei danni morali o non patrimoniali anche se non convivono coi nipoti rimasti vittime di fatti reato.
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Avvocato penalista - Ai nonni è dovuto il risarcimento dei danni morali o non patrimoniali anche se non convivono coi nipoti rimasti vittime di fatti reato. 
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"" Danni morali per i nonni anche se manca la convivenza

Danni morali per i nonni anche se manca la convivenza

Suprema Corte di Cassazione Penale Terza Sezione
Sentenza 4 giugno – 11 luglio 2013, n. 29735
Presidente Teresi – Relatore Ramacci

La Cassazione penale ha affrontato un importante aspetto relativo al risarcimento del danno non patrimoniale.

La questione è stata più volte affrontata degli ermellini ma mai in maniera definitiva.

Il caso in questione riguarda il risarcimento del danno non patrimoniale in favore dei nonni quando questi convivono col nipote deceduto in un incidente stradale.

E’ chiaro che i nonni possono costituirsi parte civile nel caso di omicidio colposo da incidente stradale in quanto, a prescindere dalla convivenza, è innegabile che abbiano subito un danno e, in quest’ottica, diventa fondamentale il legame di sangue e l’affetto che il vincolo di parentela crea tra nonni e nipoti (Corte di Cass. Sez. IV n. 38809, 21.10.2005).

La giurisprudenza però dice anche che nell’ambito del danno non patrimoniale da perdita di congiunto, anche se riguarda un forte legame quale quello che può esserci tra nonni e nipoti, per essere rilevante dal punto di vista del risarcimento del danno non patrimoniale deve essere necessariamente vincolato alla convivenza che diviene dunque il requisito fondamentale per dar prova dei rapporti costanti tra il defunto e i nonni (Sez. III civ. n. 4253, 16 marzo 2012; Sez. III civ. n. 6938, 23 giugno 1993).

In base a questa considerazione ciò che emerge e che assume importanza è la famiglia in senso stretto, il nucleo familiare composta da genitori e figli escludendo così, almeno in linea di principio i nonni che nella famiglia hanno comunque l’importante ruolo di “supplenti” dei genitori.

Ecco dunque che la convivenza diventa l’elemento essenziale in quanto manifesta l’intimità e l’affetto dei rapporti tra quei parenti che vivono sotto lo stesso tetto.

Nella sentenza che di seguito si riporta la terza sezione penale ha concluso che la convivenza non debba essere considerata condizione essenziale al fine di determinare l’affetto e l’intimità esistente tra nonni e nipoti se comprovata da altre situazioni concrete che manifestano il solido legame, come ad esempio, una frequentazione costante ovvero molteplici contatti telefonici etc. ""

Fonte sentenze-cassazione.com, qui:

http://www.sentenze-cassazione.com/nonni-danni-morali-no-convivenza/
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Avvocato penalista - Ai nonni è dovuto il risarcimento dei danni morali o non patrimoniali anche se non convivono coi nipoti rimasti vittime di fatti reato. 
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